È a tal punto un romanzo d'amore che vien voglia di mettergli sotto una didascalia parafrasando la scritta che compare nella famosa opera di Magritte e dicendo «Ceci n'est pas un amour». Il romanzo Dopo lo spettacolo, infatti, è la storia di un amore proprio come quella dipinta da Magritte è una pipa, nonostante il pittore abbia intitolato l'opera La Trahison des images, cioè Il tradimento delle immagini. Mentre Magritte, da surrealista, si arrovellava sulla distanza incolmabile, sulla differenza radicale fra le parole e le cose, Keiichiro Hirano, da scrittore, sa che gli scrittori una cosa soltanto possono fare: scrivere, usare le parole per mostrare le cose.
Tuttavia, Dopo lo spettacolo «n'est pas un amour» nella realtà, non nella surrealtà. Perché ogni amore vive in un mondo che lo nega, che gli si oppone o facendogli resistenza, o aggredendolo, oppure semplicemente esistendo, in forma di distrazione fatale, di inciampo imprevisto, di perdita di un treno, di lavoro da sbrigare, di impegno da portare a termine, di fidanzamento, di matrimonio, di nascite, di morti... Tutto mette i bastoni fra le ruote all'amore, ma è anche vero che senza bastoni fra le ruote l'amore non esisterebbe. O forse pensate che Adamo ed Eva nell'Eden si amassero davvero, prima del fattaccio?
Keiichiro Hirano, 44 anni, laureato in legge a Kyoto, autore di un bel gruzzolo di saggi, racconti e romanzi (con il primo, Nisshoku, «L'eclisse», nel '98 ha ottenuto il Premio Akutagawa), quando iniziò a scrivere, in Giappone passava per un classicista, avendo come riferimento il classico nipponico più vicino in termini di spazio e di tempo, Mishima Yukio (precocissimo - anche troppo - iniziò a leggerlo appena finite le elementari). Insomma, un raffinato e quasi barocco autore con lo sguardo rivolto al passato. Ma poi, come spiega Laura Testaverde, traduttrice di Dopo lo spettacolo (Lindau, pagg. 463, euro 26), nella postfazione del libro, dalla raccolta di racconti Takasegawa del 2003 ha cambiato prospettiva, guardando al presente, alla società contemporanea con tutti i suoi pregi e difetti.
Senza considerarlo espressamente un difetto, né tanto meno un pregio, Keiichiro da un decennio si sta dedicando al concetto di «dividuo», contrapposto a quello di individuo. Il «dividuo» è l'individuo che si parcellizza, si modella, si adegua alle varie relazioni interpersonali, ai contesti e ai periodi. E ovviamente la modernità, con la sua frenesia, accelera e moltiplica questa parata di ruoli e di maschere. Ecco perché nella bibliografia di Dopo lo spettacolo, prima opera di Keiichiro proposta in italiano, troviamo saggi sulla guerra in Iraq e sulla «pulizia etnica» nella ex Jugoslavia, sulla crisi finanziaria originata dai subprime o su Bach. Perché a Makino Satoshi e a Komine Yoko, il lui e la lei della storia, non essendo né puri spiriti, né le due metà della mela citate nel mito platonico del Simposio, tocca di vivere, come a tutti noi, da «dividui». Lui, giramondo star della chitarra classica, deve fare i conti con le strategie della sua casa discografica, con l'invadenza dei manager, con gli umori del pubblico, con la malattia del suo maestro... E lei, giornalista di stanza a Parigi, ma inviata in Iraq durante la seconda guerra del Golfo, deve barcamenarsi fra un padre croato, celeberrimo regista cinematografico assente dalla sua vita, e una madre anch'essa lontana, fra un ex amico di gioventù che sta per diventare suo marito e un'amica della quale occuparsi come una sorella maggiore... Lui è baciato, ma anche incatenato, dall'arte, lei è orgogliosa, ma anche appesantita, dalla valenza sociale della sua professione.
Il primo incontro, fortuito, avviene nel 2006 dopo un concerto di Satoshi alla Suntory Hall di Tokyo. Qui Keiichiro ci presenta i due protagonisti in purezza, come «individui» al netto del loro essere «dividui». In queste pagine fondative del futuro avvertiamo subito la musica della loro sintonia, come una fuga di Bach contemporaneamente in avanti e all'indietro. «La gioia di essere stata compresa, brillò nel suo sguardo». È fatta, non può non essere amore. Ma è ciò che avviene dopo, nei successivi cinque-sei anni, a far maturare questo legame messo a rischio da tutto, ma che nulla riesce a scalfire. Dal secondo capitolo all'ultimo, è come se l'autore s'impegnasse a scrivere, con l'inchiostro profumato della sua sensibilità guidato sulla pagina dal polso fermo del narratore che tutto sorveglia e piega al proprio volere, una sola frase, «ceci n'est pas un amour». A negare cioè, con il dipanarsi degli eventi divisivi fra Baghdad e Los Angeles, Parigi e New York, Nagasaki e Tokyo, proprio ciò che vuole affermare. Ma ecco le parole rivelatrici della trama, che interpretano la percezione delle cose di Yoko.
«E pensò che il labirinto in cui nessuna strada sia senza sbocco, ma ognuna porti a una uscita diversa, sia di gran lunga più crudele di quello in cui i percorsi sbagliati finiscono tutti in un vicolo cieco, per cui bisogna tornare indietro per trovare quello giusto».Come a dire che ogni amore ha la sua strada e il suo modo di non essere per il mondo e di essere soltanto per se stesso.
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