Monza, 29 luglio 1900: l'anarchico Gaetano Bresci uccide, con tre colpi di rivoltella, il re Umberto I. Il regicidio pone fine non solo all'ultimo convulso quadriennio degli anni Novanta (la cosiddetta «crisi di fine secolo»), ma anche, in un certo senso, a tutta l'epoca seguita all'unificazione perché esalta simbolicamente la frattura fra popolo e Stato quale espressione suprema della fragile legittimità del potere monarchico scaturito dal Risorgimento. Non c'è dubbio che nella storia italiana l'uccisione di Umberto I costituisca uno spartiacque decisivo tra un'età liberale priva di una reale partecipazione popolare e un'età liberale tesa a cercare tale partecipazione per rendere meno precario l'assetto politico e istituzionale vigente.
Bresci era nato a Coiano, vicino a Prato, nel 1869, da una famiglia di contadini non agiati, ma neppure poveri. Ultimo di quattro fratelli, si era impiegato all'età di dodici anni come apprendista in una fabbrica tessile e pochi anni dopo era già un operaio che guadagnava uno stipendio decoroso. Aderì ben presto alle idee anarchiche, tanto che dopo le leggi crispine del 1894 fu relegato al domicilio coatto nell'isola di Lampedusa, dove rimase fino al maggio del 1896. Ritornato in libertà, riprese il suo mestiere di tessitore a Ponte all'Ania (Lucca). In questo periodo ebbe varie avventure amorose con operaie del suo stabilimento e una di queste gli diede un figlio nell'estate del 1897. Di bell'aspetto, aveva successo con le donne, alle quali dava molta importanza, come dava molta importanza a tutto ciò che poteva rendere gioiosa la vita. Insomma, Bresci non aveva nulla della personalità tormentata e tenebrosa del rivoluzionario di fine Ottocento, così come appare negli stereotipi di molta letteratura dell'epoca. Era invece un individuo aperto al mondo e alle novità, non rinchiuso in se stesso.
Agli inizi del 1898 emigrò negli Stati Uniti stabilendosi a Paterson (New Jersey), dove si impiegò in una fabbrica tessile. Qui allacciò una relazione amorosa con una donna irlandese, Sofia Knieland dalla quale ebbe una figlia, Maddalena. Paterson era una sorta di capitale dell'anarchismo italiano negli Stati Uniti. In questa cittadina gli anarchici vivevano la loro fede in modo particolarmente appassionato. Dopo i tragici fatti milanesi del '98 (l'uccisione, da parte dell'esercito, di decine e decine di manifestanti che protestavano per l'aumento del prezzo del pane), l'odio per il re, la corte, i militari, la borghesia assunse toni estremi e incontrollabili. «Re mitraglia» e «Umberto sporcamano» veniva chiamato il sovrano italiano a Paterson e, soprattutto e significativamente, «Umberto unico», per significare, appunto, che dopo di lui la dinastia doveva finire. Questi sentimenti erano comuni a tutti gli anarchici e Bresci non si sottraeva a questo sentire collettivo.
Che cosa spinse Bresci a uccidere il re? Naturalmente non si può rispondere in modo esauriente a tale domanda; si può tuttavia pensare che il desiderio di vendetta e la certezza che presto vi sarebbe stata in Italia una rivoluzione sociale siano stati gli elementi psicologici decisivi che alimentarono la volontà dell'anarchico pratese a compiere l'attentato.
Bresci si imbarcò per l'Italia a New York il 17 maggio 1900 e, durante la traversata, frequentò assiduamente altri due anarchici, entrambi provenienti da Paterson: l'operaio trentino Antonio Laner e il barbiere elbano Nicola Quintavalle. Fece anche la conoscenza di una giovane donna, Emma Maria Quazza, pure lei operaia tessile nella cittadina statunitense e di idee e sentimenti socialisti. Giunti a Le Havre il 26 maggio, i quattro amici si diressero a Parigi, dove rimasero circa una settimana per visitare l'Esposizione Universale. Ritornato a Coiano, Bresci vi rimase circa quaranta giorni, trovando il tempo di allenarsi con la pistola, che aveva portato con sé dall'America. Lasciò il paese natale il 18 luglio per recarsi a San Pietro, dove viveva sua sorella. Qui conobbe una giovane ombrellaia, Teresa Brugnoli, che accettò quasi subito di passare con lui qualche giorno d'amore a Bologna. Il 21 luglio ricevette un telegramma e quello stesso giorno si spostò, da solo, a Piacenza. Da qui passò a Milano, giungendovi il 24 luglio. Nel capoluogo lombardo affittò la camera di una pensione. Dopo tre giorni raggiunse Monza pernottando in un'altra locanda. Nei due giorni seguenti perlustrò i viali adiacenti il parco reale, chiedendo notizie sui possibili spostamenti del re. La sera del 29 luglio alle ore 20,30 ebbe inizio il concorso ginnico organizzato dalla società «Forti e Liberi». Alle 21,30 il sovrano entrò nel campo per prendere posto nel palco riservatogli; più o meno contemporaneamente entrò anche Bresci. Alle 22,05 cominciarono le premiazioni con il re in persona a porgere le coppe alle squadre vincitrici. Finita la cerimonia, Umberto I salì sulla carrozza, ma dopo pochi secondi, mentre ancora si sporgeva dalla vettura per salutare la folla, Bresci, da circa tre metri, gli sparò colpendolo tre volte. Pochi minuti più tardi il re era morto e Bresci, scampato a stento al linciaggio grazie al pronto intervento dei carabinieri, era rinchiuso nella caserma di Monza. Si era consumato così l'attentato più grave della storia dell'Italia liberale.
Bresci assunse ogni responsabilità, negando decisamente di avere avuto complici o aiuti di sorta: l'attentato era stato ideato da lui solo e da lui solo portato a termine. Durante il processo, svoltosi a Milano un mese dopo, il 29 agosto, confermò punto per punto questa versione, ribadendo che la sua volontà era stata quella di colpire il re quale responsabile dei massacri avvenuti negli anni precedenti. La sua linea di condotta non ebbe mai un momento di cedimento o di contraddizione, rivelando una personalità coerente fino in fondo. La difesa, assunta dall'avvocato anarchico Saverio Merlino, dopo la rinuncia di Filippo Turati, che aveva visitato in carcere l'imputato e che gli suggerì il nome dello stesso Merlino quale suo naturale difensore, non riuscì a sottrarlo al massimo della pena: il regicida fu condannato all'ergastolo, con sette anni di segregazione cellulare.
L'attentato non provocò alcun effetto negativo sulla tenuta psicologica, politica e morale dell'istituto monarchico in Italia. L'opinione pubblica, tranne rarissime eccezioni, si schierò in difesa compatta del re, della dinastia, dell'ordine e della legalità vigenti. A parte lo scontato arresto di qualche centinaio di anarchici, la chiusura di alcune loro sedi, e sporadici episodi di esaltazione dell'attentato - con conseguenti processi per apologia di reato -, non vi fu una rappresaglia di massa; insomma, non si assistette, in generale, a contraccolpi rilevanti per l'ordine pubblico, né avvenne la temuta - e da alcuni sollecitata - inversione reazionaria del governo. L'attentato, invece, razionalizzò il sistema politico italiano, dato che, come è noto, pochi mesi più tardi Zanardelli e Giolitti vennero chiamati a sostituire il ministero Saracco.
Nemmeno tutti gli anarchici residenti in Italia crearono un fronte di solidarietà con il regicida. Posizioni contrastate da altri gruppi, specialmente quelli operanti all'estero. L'immagine oleografica del regicida, martire e vendicatore, alla fine però prevalse, scaldando per decenni il cuore di intere generazioni di militanti: «Pria di morir sul fango della via/ imiteremo Bresci e Ravachol» recitò fin dall'inizio una canzone.
Dobbiamo ora domandarci se sia possibile accontentarsi della spiegazione fornita da Bresci per dar conto dell'intero accaduto. Come abbiamo detto egli assunse ogni responsabilità, negando decisamente di avere avuto complici o aiuti di sorta. È quasi certo, tuttavia, che Bresci ebbe dei complici, o per meglio dire, che fu aiutato nella sua azione. Con tutta probabilità il retroterra logistico del regicidio va individuato in un gruppo di anarchici biellesi emigrati a Paterson. Certamente fra questi vi fu Luigi Granotti, detto «il biondino», anch'egli giunto in Italia dagli Stati Uniti. Granotti venne subito individuato, ma non acciuffato; riuscì infatti a sfuggire a tutte le ricerche, vivendo negli Stati Uniti, dove morì nel 1949. Altri complici potrebbero essere stati Giovanni Della Barile e Alberto Guabello e dietro a loro, forse, i noti anarchici Francis Widmar e Giuseppe Ciancabilla, quasi tutti, allora, residenti negli Stati Uniti.
Secondo il ministro degli Interni Giovanni Giolitti la matrice dell'attentato doveva invece essere fatta risalire al maggior anarchico italiano, cioè a Errico Malatesta. Questi avrebbe reclutato Bresci grazie ai mezzi elargiti dall'ex regina di Napoli, Maria Sofia di Baviera, vedova di Francesco II. Ne emergerebbe pertanto questa ipotesi: la vera mandante dell'assassinio di Umberto I sarebbe stata Maria Sofia (sorella della più nota Sissi, imperatrice d'Austria), mossa da un'inestinguibile sete di vendetta per essere stata spodestata quarant'anni prima proprio a causa dell'azione unificatrice dei Savoia. A sua volta, però, in questa lotta contro lo Stato italiano nato dal Risorgimento, l'ex sovrana si sarebbe associata al Vaticano, anch'esso espropriato dei suoi domini. Si tratta, come si vede, di una congettura altamente suggestiva: l'ex suddito del regno di Napoli (Malatesta) alleato alla sua ex regina e ai preti: insomma, anarchici e borbonici, atei e clericali, reazionari e rivoluzionari uniti nella lotta contro la monarchia e il regime liberale.
La tesi, del tutto infondata, era dovuta ad alcune informazioni strampalate della polizia, secondo la quale Malatesta, con l'appoggio del socialista Oddino Morgari, e grazie sempre all'aiuto finanziario di Maria Sofia, progettava di far evadere Bresci dal penitenziario di Santo Stefano, dove era rinchiuso.
Non si è lontani dal vero se si ipotizza che la paura di Giolitti, circa l'effettiva possibilità di una fuga del regicida, fu interpretata zelantemente da alcuni funzionari di polizia. Ciò spiega perché Bresci morì il 22 maggio 1901, ufficialmente suicidatosi, ma in realtà ucciso. Il che avvenne ad opera delle guardie carcerarie o forse di alcuni detenuti (che poi in cambio ottennero la liberazione).- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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