È l'ora di Wonder Woman In corsa per l'Oscar più film "al femminile"

La cerimonia negata al produttore sotto accusa Ora favorite le «impegnate» Bigelow e Gerwig

È l'ora di Wonder Woman In corsa per l'Oscar più film "al femminile"

Il tornado che si è abbattuto su Hollywood, un mese fa, quando il New York Times e il New Yorker hanno scoperchiato il vaso di Pandora dov'erano stipati i sistematici abusi sessuali di Harvey Weinstein nei confronti di attrici, collaboratrici e giornaliste, ha spazzato via anche le regole dell'Oscar. Sebbene sabato, alla cerimonia dei Governors Awards, ossia i Premi alla carriera che rappresentano il primo passo verso la lunga marcia per gli Oscar, lo show sia andato avanti come nulla fosse. Angelina Jolie ha danzato sul palco con la regista 89enne Agnès Varda, dopo aver premiato la pioniera della Nouvelle Vague in un'atmosfera sospesa. E un lungo applauso per Dustin Hoffman, accusato di molestie da due donne (la star ha chiesto pubblicamente scusa), ha sancito l'oblio del momento, innaffiato da generosi calici di Piper-Heidsieck Brut una volta al buffet. E mentre la filiera dei molestatori si infittisce da James Toback a Kevin Spacey; da Roy Price, il patròn di Amazon Studio, che produce i film venduti online, fino al comico Louis C.K. -, si contano i danni provocati dall'«uragano Harvey». Intanto, il procuratore di Los Angeles, Jackie Lacey, ha istituito una speciale unità per monitorare i casi di molestie tra Vip hollywoodiani: a chi toccherà, prossimamente?

Un'ondata choc che si riverbera soprattutto nel mondo produttivo: il puritanesimo americano non si ferma alla condanna morale, con l'esemplare «damnatio memoriae» inflitta a Kevin Spacey, cancellato dall'ultimo film di Ridley Scott, All the Money in the World, ma va a incidere direttamente nella carne del business.

I progetti decadono, uno dopo l'altro, con effetto domino che vede le serie di Amazon buttate giù per prime. Coprodotta dalla Weinstein Company,è sbianchettata la serie poliziesca di David O'Russell, dall'astronomico budget di 160 milioni di dollari, che avrebbe fatto riunire Julianne Moore e Robert De Niro, stelle di prima grandezza. Due stagioni da 20 episodi finite nel nulla, come il salario previsto per Bob: 750.000 dollari a puntata. I legami professionali e d'amicizia tra Weinstein e il dimissionario Roy Price hanno spinto Amazon ad annullare tutto. E se Netflix ha sospeso le riprese di House of Cards, né distribuirà Gore, l'ultimo film di Spacey sulla relazione tra il celebre scrittore Usa e un giovanotto, la stella di Weinstein non splende più sugli Oscar. Il produttore-predatore sperava di ben figurare con The Current War, film sui duellanti dell'elettricità, Thomas Edison, interpretato da Benedict Cumberbatch e George Westinghouse. Il biopic è stato affossato dallo scandalo: uscita rimandata sine die e fine della corsa agli Oscar.

Ed è stop anche per Kate Winslet, che sperava in una statuetta con Wonder Wheel: prodotto da Amazon e girato da Woody Allen, inquieto per l'eventuale risalita a galla del fango su di lui, da vent'anni nel mirino dei suoi figli adottivi per molestie, il film è finito nel freezer. Per tacere dei numerosi attori di fascia alta, compromessi perché sapevano degli istinti predatori di Weinstein e hanno taciuto: Matt Damon e George Clooney in prima fila.

Fatti fuori i maschi di punta dello star-system, nella corsa all'Oscar si affacciano le registe di peso: Kathryn Bigelow, autrice di Detroit, sulle rivolte razziali americane; Dee Rees firmataria di Mudbound (razza e povertà sul delta del Mississipi nei '40), prossimamente su Netflix e Greta Gerwig, che ha scritto e diretto Lady Bird, commedia su una giovane donna (Saoirse Ronan) che vive nella Carolina del Nord. Senza dimenticare Patty Jenkins con Wonder Woman.

Magari sarà rivoluzione per l'istituzione degli Oscar, che in 90 anni di esistenza ha nominato soltanto quattro registe: la nostra Lina Wertmueller (Pasqualino Settebellezze), l'australiana Jane Campion (Lezioni di piano) e le americane Sofia Coppola (Lost in Translation) e Kathryn Bigelow (The Hurt Locker). D'altra parte, abbondano i film sulle eroine in lotta per l'uguaglianza: da La guerra dei sessi con Emma Stone a Three Billboards Outside Ebbing, Missouri con Frances McDormand fino a The Post di Steven Spielberg, con Meryl Streep nei panni di Katharine Graham, proprietaria del Washington Post, il potere è rosa. Quest'ultimo film, tra l'altro, si fa forte d'una robusta presenza femminile dietro la produzione e la sceneggiatura. Prima dell'affaire Weinstein e dopo tre anni di battaglie, comunque, l'Academy ha dovuto ammettere una serie di nuovi votanti per diversificare, internazionalizzare, femminilizzare e ringiovanire i suoi ranghi. L'Accademia deve farsi perdonare due annate consecutive (2015 e 2016) orbe di nomination per registi e attori di colore. Nel 2016 il 92% dei 6.200 giurati agli Oscar erano bianchi e il 75% uomini. Il 4 marzo dell'anno prossimo, allora, per il 90esimo anniversario degli Oscar più politicamente corretti mai immaginati, andrà in scena la Grande Pulizia?

Intanto, Casey Affleck, incoronato Migliore Attore, l'anno scorso, per Manchester by the

Sea, come da tradizione avrebbe dovuto consegnare la statuetta alla Migliore Attrice. Ma una petizione inoltrata all'Academy chiede la sua testa: dal 2010 Casey è in causa con certe collaboratrici per molestie sessuali...

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