Nel 1947 fu trovata a Los Angeles, morta e tagliata a metà, una giovane e bella ragazza: Elisabeth Short, passata alla storia col suo soprannome di Black Dahlia. Tra le sue frequentazioni, che comprendevano il jet-set del cinema ma anche i surrealisti emigrati negli States, si è sempre sospettato si nascondesse un serial killer. Che però non aveva ancora questo nome. Oggi invece pervade in lungo e in largo il nostro immaginario. Protagonista di film, romanzi, graphic novel e serie televisive, nella cultura pop il serial killer è ritratto come una persona astuta, spesso come un vero artista della morte. Eppure l'omicidio seriale è tutt'altro che frequente, anzi è proprio raro. Come si spiega, allora, questa presenza sempre più invadente nella fiction? Da dove proviene questa attrazione nel pubblico per criminali estremi e i delitti più orrendi? Meglio regnare all'inferno (Lindau, pagg. 256, euro 34) di Mario A. Iannaccone è la più completa storia del fenomeno. È, soprattutto, una riflessione sull'uso ideologico della narrazione di questi crimini (dal XIX secolo a oggi). Assassini per puro piacere, perché folli o malvagi, sono presenti da sempre (si pensi al famoso Jack lo Squartatore) ma è solo dalla fine degli anni Sessanta che la cosa è affrontata in modo nuovo. Negli Ottanta è l'era Reagan a vedere nell'omicida seriale l'esito ultimo della controcultura trasgressiva, promiscua, drogata (si pensi al film Natural born killers, ispirato a un fatto vero). Durante il caso degli Atlanta Child Murders (omicidi di bambini) fu creata la Behavioral Science Unit, sezione apposita dell'Fbi e venne inaugurato il termine serial killer. Che diventò il nuovo nemico interno. L'Accademia Fbi di Quantico formò specialisti che stilavano «profili»: i mindhunter, che dovevano pensare come gli assassini ed essere esperti in indagine procedurale (i vari Csi o i romanzi di Kathy Reichs, quasi una mitologia contemporanea). Nella finzione l'unica persona che si salvava dalla furia del killer era la più morigerata, di solito una ragazza, la Final girl (l'archetipo, nel film Halloween del 1978).
Negli anni Novanta, con l'era Clinton, le forze progressiste spazzarono via la breve stagione conservatrice reaganiana. L'industria dello spettacolo, liberata dai lacci della condanna morale, propose il serial killer come eroe sadiano, intelligente e manipolatore, figlio di un male superiore. Hannibal Lecter è l'archetipo del serial killer del nuovo tipo: da ragazzo ha visto la sorellina mangiata da nazisti cannibali, si è convinto che il mondo è governato da forze malvagie ed ha abbracciato una filosofia ispirata a De Sade. Questo tipo di serial killer immaginario è diventato molto presente nella cultura pop e ha avuto incarnazioni di grande successo come nelle serie tv Dexter o Hannibal, complessa e disturbante riflessione sull'arte di uccidere. Il serial killer di nuovo genere è non di rado visto con simpatia: è favorevole all'eutanasia, colto, svincolato da convinzioni religiose (talvolta è persino un giusto pur nella sua ingiustizia). Ed è un artista. Gli esempi sono decine. Allo stesso tempo, però, è spuntato un secondo tipo di nuovo serial killer: il padre di famiglia, l'uomo ossessionato dalla religione (cattolica, prevalentemente, o comunque cristiana). In questo senso il cinema dei serial killer, ma anche il romanzo nei suoi maggiori esponenti (come Patricia Cornwell), è diventato un mezzo di condanna della «cultura patriarcale» e della famiglia tradizionale. In decine di serie televisive alcune, va detto, molto ben realizzate- e centinaia di film degli ultimi trent'anni è il «padre» ad essere messo sotto accusa, in tutti i sensi. La donna è quasi sempre una vittima, il maschio sempre colpevole, soprattutto se legato a una società patriarcale, tradizionale e religiosa che è vista come la fonte di tutti i mali. La famiglia è malata: così è rappresentata in molte serie americane, inglesi (Broadchurch o Happy Valley), norvegesi, svedesi e persino francesi. E la famiglia genera mostri: padri pedofili e/o assassini, figli degenerati. Ci sono poi intere serie in cui scene clou di omicidio e violazione avvengono in chiese e luoghi di culto.
Un caso? O soltanto un altro modo che le sinistre culturali e del regresso irrazionale hanno scelto per combattere l'antico nemico? Da questo punto di vista Meglio regnare all'inferno (frase tratta dall'opera di Milton, Paradiso perduto) è una riflessione impressionante.
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