Non basta tenere il coltello dalla parte del manico, occorre anche la volontà di usarlo, quel coltello, per fare del male. È una verità ben nota, ovviamente, alle vittime, soprattutto a quelle che non possono più parlare... Ed è ben nota, altrettanto ovviamente, ai colpevoli, che parlare non vogliono. Ma questa verità la conoscono anche gli innocenti, inclusi quelli che non sono del tutto «innocenti», e infine le persone, diciamo così, borderline, cioè quelle che non sono ancora «colpevoli», ma per un motivo o per l'altro si trovano nelle condizioni di diventarlo...
In La ragazza del Kyushu (Adelphi, pagg. 209, euro 18, traduzione di Gala Maria Follaco, da domani nelle librerie), prima versione italiana del serratissimo giallo del giapponese Matsumoto Seicho datato 1961, tutto ruota intorno ai differenti punti di vista da cui si contempla quella verità. Si parte da un classico che più classico non si può: l'uccisione di un'anziana usuraia, come in Delitto e castigo di Dostoevskij. Alla sbarra finisce Masao, giovane maestro di provincia, che alla megera doveva una bella somma. Ma la sorella dell'accusato, la dattilografa Kiriko, fanciulla tanto fragile all'apparenza (l'autore usa più volte l'aggettivo «infantile», nel descriverla), quanto determinata nel condurre la propria battaglia per far emergere la verità, rompe gli indugi e sale dal Kyushu fino alla capitale, Tokyo, con il preciso intento di affidare la difesa di Masao al miglior penalista del Giappone, l'avvocato Otsuka, al quale si rivolge. Tuttavia anche lei, come il fratello, non naviga negli yen, quindi Otsuka oppone un non troppo cortese rifiuto. Ecco un innocente non del tutto innocente, pensa il lettore, e pensa bene. Visto che poi il condannato Masao s'ammala e muore in cella, il principe del foro pare meritarsi l'universale disprezzo. E lui cerca di scontare almeno a bocce ferme la colpa dell'omesso soccorso leggendo gli atti del processo (sommario) diventato la pietra tombale sul cold case. Di cui si interessa anche, del tutto fortuitamente, il «buono» per eccellenza della situazione (che sia l'unico fra tutti? si chiederà il lettore al termine del romanzo), l'intraprendente giornalista Keiichi, peraltro non insensibile al fascino acerbo di Kiriko. Quando Matsumoto, con abile mossa teatrale, chiude momentaneamente il sipario sul delitto del Kyushu per aprirne un altro, su un omicidio per molti versi affine al precedente (questa mossa è una sua specialità, si veda Come sabbia tra le dita, uscito nell'89 e l'anno scorso da Mondadori), ma commesso in una Tokyo intirizzita dall'inverno e dalla tensione di un racconto scabro, di poche parole e molti fatti, si tratta soltanto di attendere che le linee narrative dei binari paralleli si incontrino.
A quel punto, arriverà il giudizio finale per tutti: colpevoli, quasi-colpevoli e quasi innocenti.
Tenendo sempre presente che esistono anche pericolosissimi coltelli con lama a doppio taglio. E che la legge dei codici deve spesso fare i conti con un'altra legge non scritta, quella della vendetta. Meglio se fredda e indiretta.
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