«Possibile che dopo vent'anni tu non sia ancora stufo?». Prima ancora che il pubblico, l'irriverente (ma inevitabile) domanda è Luca Zingaretti, a porsela. Noblesse oblige. Quasi due decenni di programmazione, 32 episodi, 147 repliche, 60 Paesi acquirenti, e lo sbalorditivo 40 per cento di share medio, sarebbero già una risposta sufficiente. E invece no. Perché ciò che immancabilmente spinge l'attore a vestire gli immutabili panni dell'eterno Montalbano (nei nuovissimi episodi su Raiuno, La giostra degli scambi lunedì 12, e Amore lunedì 19) «è la libertà. Me la sono guadagnata con trent'anni di carriera, questa libertà. E ora me la godo».
La libertà di continuare a interpretare un ruolo da cui un altro si sentirebbe magari intrappolato?
«Proprio così. La libertà di dire: Montalbano mi piace. Mi piace ritrovare ogni anno il team che lo crea. Anzi: ne ho bisogno. E la libertà di rifiutarlo; lo feci nel 2006, per chiudere al top degli applausi, prima che sbuffassero: Ancora Montalbano!. E la libertà di ripensarci: perché gli applausi sono continuati, aumentati anzi, e non diminuiscono. E oggi sono fiero di essere identificato con quella che ormai è per tutti un'icona».
Molti continueranno a chiederle se il Montalbano dei due nuovi episodi è cambiato o no.
«Montalbano non deve cambiare. Montalbano è un classico: continua a piacere proprio perché è immutabile. Perfino la sua macchina, quella Fiat Tipo che nella realtà non esiste più, deve restare lei. Quanto ai nuovi episodi, vedendoli mi sono sorpreso a pensare Ma quanto sono belli!. C'è poco da fare: ogni volta rinverdisce una scommessa, rifiorisce un sempreverde. Senza mai dormire sugli allori».
Anche se poi, su 180 passaggi televisivi, ben 147 sono quelli delle repliche...
«Io preferirei fare più Montalbano e meno repliche, ovvio. Ma non dipende da me. Anche se bisogna dire che perfino le repliche fanno parte dell'eccezionalità del prodotto. Quale altro può vantarne altrettante?».
Fiero di essere identificato in un'icona, diceva. Anche da quei registi che non la vedono in altri ruoli, però...
«Che non sono molti, ma ci sono. Io però penso d'essere - scusate l'immodestia - un signor attore. Perfino ai miei duri inizi, quando facevo la comparsa, l'alabardiere negli spettacoli in costume, studiavo lo stile degli altri. Così oggi tocca a me convincere chi mi pensa solo come Montalbano che so essere anche mille altri».
Anche regista, di cinema o di teatro, giusto?
«Giusto. Con la maturità il vestito dell'attore comincia a stare stretto. Io poi appartengo a una generazione che cominciò quando al cinema si facevano solo i pierini e i poliziotteschi: devo risarcirmi di quei progetti creativi che non ho potuto realizzare a vent'anni. Così per il teatro preparo la regia di The Deep Blue Sea di Terence Rattigan, per mia moglie Luisa Ranieri, e al cinema voglio debuttare come regista. Anche se sono dieci anni che ne parlo. E ogni volta che lo faccio il progetto sfuma».
E come attore? Se Montalbano non ha esaurito le sue velleità, cos'altro le piacerebbe fare?
«Beh, intanto ruoli diametralmente opposti. Come il gay di Pride, in teatro, o il padre transessuale di Thanks for Vaselina nel film di Gabriele Di Luca. Poi vorrei tanto lavorare con Virzì, che reputo fra i migliori. Ammiro la felicità di scrittura di Sorrentino, più ancora delle sue immagini. E mi piacerebbe che Ferzan Özpetek, dopo avermi avuto come giovane aiuto regista, mi riprendesse come protagonista».
Con l'approssimarsi delle elezioni del 4 marzo qualcuno suppone per lei anche una carriera politica.
«Un politico in famiglia (il fratello Nicola, presidente della regione Lazio, ndr) basta e avanza. Certo: ho le mie idee, come tutti. Ma il livello del dibattito politico è davvero bassissimo».
Lei è anche tifosissimo della Roma. Che ne pensa del momento della sua squadra?
«Che la colpa
non è dell'allenatore, né dei giocatori, ma della società. Che semplicemente non esiste. Mettiamocelo in testa: la Roma è stata comperata come fondo d'investimento. Cuore, anima, fede sportiva sono tutt'altra cosa. Punto».
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