Missione (im)possibile. La tv buona maestra se riesce a garantire davvero il pluralismo

Popper: "Ogni potere, soprattutto se gigantesco, deve essere controllato. Schermo incluso". Gadamer: "La democrazia è diventata una nuova forma di dispotismo 'grazie' ai media"

Missione (im)possibile. La tv buona maestra se riesce a garantire davvero il pluralismo

«La televisione è la catena da schiavi alla quale è legata l'odierna umanità. La chiave di questa catena la possiede la contemporanea élite dell'informazione, il cui scopo è unicamente la schiavizzazione dell'umanità ad opera delle immagini». Questo ha dichiarato Hans-Georg Gadamer in una intervista al settimanale tedesco Die Woche (10 febbraio 1995). E subito aggiunse di temere per il futuro della democrazia: l'omologazione televisiva va di pari passo con una nuova élite «che ogni giorno ci fa sentire e vedere la sua frusta elettronica». La realtà, annotava tristemente Gadamer, è che «la cultura nel senso di una educazione dello spirito scompare sempre di più». Ed è così, allora, che «forse si dovrebbe parlare di fine della cultura, della fine dell'apprezzamento del passato. Forse anche della fine dell'esperienza del dialogo».

E la fine dell'esperienza del dialogo cioè della discussione e dell'argomentazione equivale alla distruzione dei meccanismi di formazione della mente critica. Ancora Gadamer, in un colloquio con Giancarlo Bosetti del 31 marzo 1996: « Al nostro sistema di comunicazione manca la spontaneità. Tutti sono passivi. La funzione politica della televisione consiste nell'addomesticare le masse, nell'addormentare la capacità di giudizio, il gusto, le idee. È una delle forme della burocratizzazione della società prevista da Max Weber».

Certo, Gadamer è pronto a riconoscere che forme di burocratizzazione della vita sociale e della comunicazione «sono inevitabili»; ma la tragedia, a suo avviso, è che «ora purtroppo gli automatismi e la burocrazia si sono spinti troppo avanti». E la tv «è l'opposto di quello che serve per sviluppare esperienza, spontaneità, motivazioni. Se la gioventù è oggi tanto pessimista, questo dipende dalla mancanza di spontaneità nello stile della sua educazione».

Il problema, dunque, è quello della formazione, cioè della creazione di menti creative e critiche. Senonché, ad avviso di Gadamer, «il sistema educativo del mondo contemporaneo si è inceppato, la formazione non funziona, su scala globale produciamo masse di telespettatori, di burocrati, di ragazzi e ragazze che con il massimo sforzo di fantasia riescono a dire okay». E «tutto questo perché il dialogo non c'è più e non c'è più gente capace di dialogo. Anche la vita politica è dominata dalla Tv. E la Tv è il contrario del dialogo, il contrario di una comunicazione reciproca. Uno solo parla a milioni che non dicono nulla; è un sistema da schiavi».

Gadamer non cerca nella televisione il capro espiatorio di tutti i mali della società contemporanea, e tuttavia diffida della televisione: «Sono contrario ad un sistema schiavistico e sostengo il dialogo come forma di opposizione contro la manipolazione delle masse». Date siffatte considerazioni, ben si comprende la funzione che, nel pensiero di Gadamer, dovrebbe assolvere la scuola: «Le nostre migliori speranze stanno nella educazione orale, in una scuola che riesca a diventare tanto attraente da spingere alla partecipazione attiva più di una piccola parte di studenti».

Andando, dunque, al nocciolo del suo pensiero, vediamo che Gadamer teme un sistema formativo che, costringendo gli individui alla passività, si trasforma in una telecrazia liberticida. Così risponde Gadamer ad una domanda postagli da Massimiliano Cannata (Giornale di Sicilia, 10 marzo 1994): «Democrazia è il punto critico. La democrazia è divenuta una nuova forma di dispotismo ed il nuovo dispotismo è quello dei mass-media». «La mia critica egli soggiunge non è rivolta agli operatori dei media, ma a tutto un sistema che rischia, attraverso l'industria della comunicazione, di trasformare la democrazia in oligarchia, espropriando il popolo della sua sovranità».

Da Gadamer a Popper. La società aperta è aperta a più visioni del mondo filosofiche e religiose, a più valori, e dunque a più partiti e a differenti proposte politiche. La società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee ed ideali diversi e magari contrastanti, a più proposte di soluzioni tecniche, alla maggior quantità di critiche. La società aperta è chiusa solo agli intolleranti e ai violenti.

«Lo stato di diritto afferma Popper, parlando proprio delle scene di violenza trasmesse per televisione consiste prima di tutto nell'eliminare la violenza. Direi anzi che questa può essere una buona definizione. Io non posso, in base al diritto, prendere a pugni un'altra persona. La libertà dei miei pugni è limitata dal diritto degli altri di difendere il loro naso. Questa è un'idea fondamentale dello Stato di diritto». Lo Stato di diritto è, dunque, lo Stato che elimina la violenza, e che è intollerante unicamente con i violenti e con gli intolleranti. Di conseguenza, prosegue Popper, «quando consentiamo che venga abbattuta e tolta di scena la generale avversione alla violenza, davvero sabotiamo lo Stato di diritto e l'accordo generale in base al quale la violenza deve essere usata. In questo modo sabotiamo la nostra civilizzazione». Ma questo, propriamente, è quello che fanno, in linea generale, le varie televisioni: abbassano la generale avversione alla violenza; trasmettono una tale massa di scene di violenza tanto da far credere che la violenza dell'uomo sull'uomo sia un fatto naturale, scontato, normale. È così che si provoca «la caduta delle resistenze naturali alla violenza nella maggior parte della popolazione».

Mi si permetta qui un ricordo personale. Anni fa, andai a un funerale in un piccolo paese umbro; era morto un anziano signore dopo una malattia protrattasi per alcuni mesi; e il genero del defunto mi raccontò, preoccupatissimo, di aver detto a Cristina, la figlia di tre anni, che era morto il nonno; e Cristina, prontamente, chiese: «E chi l'ha ammazzato?».

Se indeboliamo la generale avversione nei confronti della violenza, miniamo le basi dello Stato di diritto, distruggiamo la società aperta. «Il nostro mondo dice Popper è minacciato da una educazione folle. Su di essa credo che dobbiamo davvero agire e, una volta che abbiamo proceduto a realizzare un'educazione molto responsabile, potremo tornare a giorni in cui la violenza era un fatto raro. Per come stanno le cose, oggi la violenza diventa sempre più pane quotidiano, e troppa gente non è praticamente interessata a nient'altro che alla violenza». Un pane quotidiano che è veleno per tutti, ma in special modo per i più giovani, sempre più indifesi. Insomma: tv cattiva maestra.

Di fronte ai ripetuti scontri e alle continue polemiche sul problema della Rai, anche il cittadino più sprovveduto e più distratto si sarà verosimilmente sentito costretto a porsi interrogativi come questi: in che cosa potrà e dovrà mai consistere un servizio pubblico radio-televisivo? Quali funzioni dovrebbe esso assolvere? È davvero necessario un servizio pubblico radiotelevisivo oppure i suoi presunti compiti potrebbero tranquillamente venire affidati a una pluralità di televisioni private? Si ripete da ogni parte, e ultimamente anche da sedi le più autorevoli, che il servizio pubblico radio-televisivo deve essere autonomo e rispettoso del pluralismo. Giusto. Ma: autonomo da chi? E pluralismo significa forse unicamente spartizione partitica di reti e testate? Servizio pubblico: servizio ai partiti e ai loro «intellettuali organici» o servizio ai cittadini?

Va da sé che in uno Stato di diritto l'esistenza di una molteplicità di radio e di televisioni private, senza posizioni dominanti, è certamente un bene. Ma allora, venendo al nocciolo della questione: quali sarebbero le funzioni essenziali (da non intendersi come minimali) di un servizio pubblico radio-televisivo?

Ebbene, il primo fondamentale compito di un servizio pubblico radio-televisivo dovrà consistere nella più rigorosa salvaguardia del pluralismo politico. E il pluralismo politico non è soltanto una pluralità di minareti da cui i muezzin affiliati ai diversi partiti lanciano, senza contraddittorio, i loro proclami e i loro anatemi, ma dovrebbe essere sempre e soprattutto approfondita discussione tra le diverse parti di problemi sociali, politici e culturali all'interno delle diverse testate e dei diversi programmi e trasmissioni. Una tv privata non avrà mai come compito istituzionale la difesa del pluralismo così inteso, essendo essa legata legittimamente, per esempio, a una cordata di imprenditori con precise preferenze politiche, a un'associazione religiosamente orientata e così via. E potremmo andare oltre e chiederci: perché la televisione di servizio pubblico non si assume il compito di trasmettere in diretta molte significative sedute parlamentari, in modo da dar conto delle attività, delle idee, delle proposte e dell'impegno dei rappresentanti dei cittadini? E questa non sarebbe cosa da poco. Difatti, se la società aperta, vale a dire la democrazia o Stato di diritto, si ha allorché esistono istituzioni che permettono ai governati di controllare i governanti e di sostituire questi ultimi senza spargimento di sangue, una tv che trasmette sedute parlamentari, sedute dei Consigli regionali e di altre istituzioni socialmente rilevanti renderebbe un effettivo servizio pubblico, sarebbe televisione di servizio pubblico.

In una società come la nostra, sempre più multiculturale, il servizio pubblico radio-televisivo potrebbe essere di grande aiuto per far conoscere al pubblico più ampio visioni del mondo, valori, istituzioni e costumi di portatori di culture altre ormai massicciamente presenti nel nostro Paese e nei Paesi della Ue. E, proprio in una situazione del genere, funzione irrinunciabile necessaria e sempre più urgente del servizio pubblico radio-televisivo dovrebbe consistere nell'affiancare la scuola nella costruzione di una forte consapevolezza dei tratti di fondo della nostra tradizione culturale, memori dell'ammonimento di Rosmini stando al quale «chi non è padrone di sé è facilmente occupabile». In simile impegno, i mass-media di servizio pubblico potrebbero spaziare cosa che in parte già si fa in uno sterminato campo d'azione, che va dall'illustrazione dei nostri tesori artistici all'analisi della genesi e dei mutamenti delle istituzioni, dei movimenti di pensiero e degli eventi storico-sociali dell'Occidente. E, alzando la qualità delle trasmissioni, aiuterebbero anche le tv commerciali a migliorarsi, sarebbero per queste ultime una specie di spina nella carne.

Certo, in linea teorica qualità e audience non sono incompatibili. L'esperienza pratica dimostra però, ad abundantiam, che la situazione è ben diversa: un'audience inseguita a ogni costo si traduce molto spesso in uno scadimento crescente della qualità di tante trasmissioni. Le tv commerciali competono per accaparrarsi acquirenti e non per rendere i cittadini più critici. Ma nell'idea di democrazia è Popper a parlare «non c'è nulla che dica che la gente che dispone di più conoscenza non debba offrirne a chi ne ha di meno». Indipendente da un pubblico di acquirenti, una televisione di servizio pubblico deve esserlo ancor più dai partiti. Dai partiti e non dalla politica. Finché la televisione pubblica sarà assoggettata alla logica della lottizzazione partitica o a ripetuti tentativi di impadronimento da parte di maggioranze o di governi, assisteremo inevitabilmente a eterne e poco edificanti zuffe e a periodici ribaltamenti. Non è dunque questione di questo o di quel consiglio di amministrazione. È questione di ordinamento; e quindi anche di ancoraggio della tv pubblica non più al governo o ai partiti ma, per esempio, a una Fondazione.

Teme, dunque, per la democrazia, Gadamer. Teme per la democrazia, Popper: «Ogni potere e soprattutto un potere gigantesco come quello della Tv deve essere controllato. La Tv può distruggere la civiltà». Il problema del sistema radio-televisivo non è questione né di destra né di sinistra. Ne va della democrazia.

E in questo, come in altri casi, la lanterna degli intellettuali che hanno a cuore la libertà dovrebbe illuminare la strada dei politici, aiutandoli così, per il bene di tutti, a essere principi illuminati e non principi adulati.

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