Gian Paolo Serino
S e fosse stato scritto decenni fa Il monastero di Zachan Prilepin, non avremmo alcuna difficoltà a riconoscerlo come un classico della letteratura russa: ne ha il coraggio, la solennità di scrittura, la presunzione, la capacità di raccontare senza sbavature l'inferno dei gulag. Basti pensare a Solzenicyn, che ebbe un ruolo storico decisivo contro il sistema, con il suo Arcipelago Gulag, o a Varlam Salamov con I racconti della Kolyma, schiavo del regime comunista per quasi vent'anni e lasciato a lungo ai margini, perché si era concentrato sulla forza della testimonianza diretta, sulla disperazione e sull'abisso. O anche L'isola di Sachalin di Cechov che, prima di diventare il famoso scrittore che tutti conosciamo, è stato un reporter ante litteram andato all'estremo Est della Russia in una delle prime colonie penali: «Katorga» sull'isola di Sachalin. Un viaggio nell'inferno dei deportati costretti a sopravvivere tra corruzione, violenza e punizioni, ora nelle librerie in una nuova edizione, curata da Valentina Parisi per Adelphi (pagg. 458, euro 22). Il monastero di Zachar Prilepin, appena pubblicato da Voland (traduzione di Nicoletta Marcialis, pagg. 812, euro 25) è stato per settimane ai vertici delle classifiche russe, sollevando ampi consensi, ma anche critiche feroci. Non che quest'ultima sia una novità. I libri di Prilepin, tradotti in undici lingue, sono sempre contestati specie per le prese di posizione contro gli intellettuali sinistrorsi. Qui però si va oltre. Il monastero ha consacrato lo scrittore più discusso della Russia come l'erede di una grande tradizione, quella della letteratura dedicata all'universo concentrazionario. Zachar Prilepin, nato nel 1975 in un villaggio della regione di Rjazan, si è arruolato da ragazzino nel reparto speciale della polizia russa, partecipando alla guerra in Cecenia. Militante del movimento nazional-bolscevico di Eduard Limonov (lo stesso Limonov al quale Emmanuel Carrère ha dedicato l'omonima, vendutissima biografia) ora irrompe in un territorio sacro per la prosa russa: il romanzo è ambientato nel 1929 alle isole Solovki, il primo lager costruito dai bolscevichi nell'ex monastero degli zar. È probabilmente la prima prosa del Gulag scritta da qualcuno che non ci è mai stato, anche se Prilepin si è molto documentato. Il tema dei lager è topico per la letteratura russa contemporanea, «preoccupata - scrive Nicoletta Marcialis nella postfazione - di fare i conti con il passato». Il lager, secondo Prilepin, è qualcosa di (quasi) normale e tutti, a turno, si trasformano da vittime in carnefici, e viceversa. In questo ricorda molto da vicino Le benevole di Jonathan Littell, anche se diverso è lo stile: da una parte ha il respiro del classico, ma con un ritmo serrato, costituito quasi esclusivamente da dialoghi, che ricorda la scrittura criminale di Jean Genet, il picaresco, con immagini pulp tratte dalle più moderne serie televisive americane.
Il passato del monastero, prigione e luogo di tortura da quattro secoli, dimostra una continuità della sanguinaria storia russa. Attraverso la storia della prima fase del sistema penitenziario sovietico il gulag diventa la metafora, lo specchio e il destino della Russia perché l'idea di forgiare l'uomo nuovo è fallita. «D'altronde che cos'è la verità, se non ciò che si ricorda?». Con questa domanda, Zachar Prilepin introduce fin dalle prime pagine quello che si rivelerà uno dei motivi conduttori del romanzo. Qualcuno ha accusato Prilepin di revisionismo. Tuttavia in queste pagine non si nega l'esistenza dei forzati, ma si mostra anche come il sistema totalitario sovietico sia fallito completamente, e abbia lasciato in eredità una classe media che non osa ribellarsi neanche a parole contro il potere.
Resta da capire, sembra dirci lo scrittore, quale forza, nell'ex Unione Sovietica, avrà la meglio: il mercantilismo e l'egoistica razionalità glaciale del potere, oppure quelle notevoli qualità umane del carattere russo che sono ancora presenti.
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