Niente nudi, sangue e fasci Così la censura spegneva i film

La religione, la politica, il sesso e la violenza: ecco tutte le scene vietate nel nostro Paese in cento anni di (assurdi) divieti cinematografici

Il film di Totò "Gli onorevoli" (1963) di Corbucci andò nei cinema dopo che le parole "culo" e "rincoglionito" furono sostituite con "popò" e "rimbambito"
Il film di Totò "Gli onorevoli" (1963) di Corbucci andò nei cinema dopo che le parole "culo" e "rincoglionito" furono sostituite con "popò" e "rimbambito"

Finalmente conquistiamo un profilo internazionale con la divulgazione elettronica del nostro pregiato patrimonio cinematografico. Qualcosa che il mondo ci invidia e che giaceva sepolto dall'incuria e la burocrazia. Arriva Cinecensura. 100 anni di revisione cinematografica italiana (dal 12 disponibile in Rete: cinecensura.com), mostra online della Cineteca Nazionale e del Ministero dei Beni e le attività culturali, progettata dagli studiosi di cinema Pier Luigi Raffaelli e Tatti Sanguineti, che dopo anni di trappismo d'archivio, con la Cineteca di Bologna, l'Archivio Luce, il Museo del cinema di Torino e l'Archivio centrale di Stato, hanno messo su piattaforma digitale, a disposizione di tutti, un'esposizione davvero notevole. Che ha il pregio di appassionare non soltanto i cinefili, ma anche chi voglia conoscere il secolo trascorso, dal punto di vista del costume e dei cambiamenti sociali. Così profondi, sotto la lente dell'intrattenimento pop, che ci s'intenerisce, di fronte alle richieste dei prefetti di provincia, o degli spettatori più bigotti, tra i pruriginosi Quaranta e Cinquanta, lesti a invocare revisioni e controlli di frasi, cosce, allusioni. E giù lettere, carte da bollo di Lire 200, processi e ricorsi, dove Visconti e Pasolini, De Sica e Bertolucci vagano per tribunali, alla mercè di qualche massaia, pronta a scandalizzarsi per un particolare, che oggi fa sorridere.

Il materiale a disposizione è sterminato: 300 lungometraggi, 90 cinegiornali o pubblicità, 86 cortometraggi, 28 manifesti censurati, filmati di tagli di 75 film, 15 cinegiornali e videointerviste. Il tutto divido in sale virtuali “a tema”: sesso, politica religione, violenza.

Sesso: se nel 1938 il Trio Lescano cantava Ma le gambe, nei Cinquanta repressi gli arti inferiori femminili destano prurigini. Dove sta Zazà (1947) di Giorgio C. Simonelli ottiene il nulla osta, a patto si eliminino alcune scene. Le donne cristiane del Centro italiano femminile di Palermo scrivono al ministero degli Interni, sentendosi insultate dalla pubblicità «ad ogni angolo di strada, raffigurante una ballerina quasi nuda». La dignità morale del popolo pare vilipesa anche ne La famiglia Passaguai (1951) di Aldo Fabrizi, con la procace Rita Dover: foto-busta sotto accusa. Un kafkiano Segretariato della Moralità di Foligno inoltra formale denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia, chiedendo l'immediato ritiro del materiale raffigurante «una persona in succintissimo e disgustoso atteggiamento,con una bottiglia in mano e in posizione quanto mai provocante in cabina da bagno».

Oggi che si fa sesso per strada, chi pensa alle cabine? Ma è Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci il film-simbolo della guerra tra censura e libertà espressiva. Denunciato e condannato “al rogo” per la scena in cui «il protagonista, utilizzando del burro, possiede contro natura la ragazza». Vani i tagli per 9,80 metri di pellicola... Certi fatti hanno perso capacità offensiva, se pensiamo che in Terza liceo (1954) di Luciano Emmer, vietato ai minori di 16 anni, un prof. si stranisce, scoprendo nel libro di un'allieva «Anita nuda con i baffi»: per la versione tv, via la sequenza. Tacendo di Nino Manfredi, una condanna penale per essere apparso «in mutande, con i pantaloni in mano» nel film a episodi Le bambole (1965). Sequestri e denunce aprono la strada al cinema a luci rosse, nei '60 e '70 affollati di pellicole vietate ai minori. «Scopate e fellatio entrano così in modo surrettizio», spiega Sanguineti.

Politica. C'è sempre qualcuno che si sente diffamato. Così sparisce Tragica alba a Dongo (1951) di Vittorio Crucillà, redattore di Omnibus, che mai avrà il nulla osta per il film. Frutto della collaborazione tra Comune di Dongo, partigiani e volontari della guerra di Liberazione, il film ritrae Mussolini e Claretta Petacci, visti di spalle, durante la loro fuga, cattura e fucilazione. Materia scottante, che per l'onorevole Andreotti «può ingenerare all'estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». La diffida della famiglia Mussolini, verso la casa produttrice, metterà una pietra tombale su quei 1040 metri di docufilm, che per Crucillà, «umile regista e soggettista», implorante udienza ad Andreotti, doveva «preparare la rinascita dell'Italia democratica». Ce n'è pure per Togliatti è ritornato (1948) di Lizzani, stoppato per le immagini d'una festa dell'Unità al Foro Italico: potevano «determinare perturbamento dell'ordine pubblico». Peccato che sia una canaglia (1954) di Alessandro Blasetti è bloccato perché un maresciallo «si esprime con espressioni dialettali e grottesche»...

Religione. Nei Cinquanta, i preti spopolano al cinema. Anche perché sono 5.900 le sale parrocchiali, dove censura di Stato e revisione cattolica controllano l'orientamento delle masse. Così non si contano i processi intentati da associazioni cattoliche. A finire nel tritafilm, Viridiana (1961) di Buñuel; La dolce vita (1960) di Fellini e Ro.Go.Pa.

G (1963), film a episodi, che suscitò accanimento giudiziario nei confronti dell'episodio La ricotta di Pasolini: «È sempre un rischio violare il mistero che circonda ogni uomo», scriveva la Pontificia Università Gregoriana al produttore, Alfredo Bini. Adesso, certi misteri non lo sono più.

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