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"Oggi il mondo è violento come una tragedia greca"

Lo scrittore parla del nuovo romanzo, ispirato all'«Ifigenia» di Euripide: «I miti sono essenziali»

"Oggi il mondo è violento come una tragedia greca"

«Tutte le case sono case dei nomi, luoghi abitati da persone con i loro nomi. La casa resta; i nomi cambiano» dice Colm Tóibín. E quindi La casa dei nomi (Einaudi, pagg. 268, euro 19,50) è un libro che, fin dal titolo, riguarda «la morte e la perdita e la memoria». È un romanzo ambizioso, in cui lo scrittore irlandese (vincitore del Costa Award per Brooklyn) si misura con la riscrittura della tragedia della casata di Atreo: il sacrificio di Ifigenia, la vendetta di Clitennestra contro il marito Agamennone, il rapporto fra lei e la figlia Elettra, la scomparsa di Oreste bambino, la sua adolescenza e il suo ritorno a palazzo, quando, a sua volta, si vendica contro la madre.

Come ha deciso di scrivere questa storia?

«La casa dei nomi è stato ispirato dalla lettura della tragedia Ifigenia in Aulide di Euripide, che non avevo mai letto prima. Conoscevo le varie versioni di Elettra, ma non questa, che è vista dalla prospettiva di Clitennestra».

Come ha lavorato?

«La prima sezione segue Ifigenia in Aulide, con qualche aggiunta di mio. La sezione centrale è completamente frutto della mia immaginazione: non c'è alcuna fonte, in nessun testo, su dove fosse Oreste quando era via. E anche gran parte delle ultime sezioni è frutto della mia immaginazione».

Perché si è rivolto ai miti?

«Queste storie sono molto potenti, e viscerali. Hanno a che fare con i conflitti all'interno della famiglia. Oggi viviamo in un mondo in cui molte divisioni sono intime - per esempio, fra opinioni di destra e di sinistra - e molte guerre sono guerre civili, o fra gang, o all'interno di una stessa religione: perciò queste storie rimangono essenziali per noi».

Crede che i miti raccontino meglio tutto questo?

«In un certo senso, sì. Ma anche la nascita del romanzo è stata importante. Queste tragedie greche sono molto crude, molto resta implicito, c'è una grande fede nelle divinità; mentre il romanzo è una forma molto più personale, intima, secolare. Mi interessava prendere la storia cruda e inserirla in un contesto formale nuovo: quello del romanzo psicologico».

Come ha costruito i personaggi e i paesaggi?

«Ho immaginato i protagonisti lentamente. Il problema era che dovevo rendere credibile, agli occhi di un lettore moderno, che Oreste uccida sua madre. Non volevo che fosse uno psicopatico, o un cattivo scontato. Perciò ho dovuto costruirlo gradualmente. I paesaggi invece erano i deserti della California del Sud e le cime dei Pirenei».

Perché si è concentrato sulla madre, Clitennestra?

«Ho pensato che la storia di Elettra era stata raccontata in molti modi. Poi ho trovato una voce per sua madre, e così ho capito che ero interessato a esplorarla, a spingerla un po' più in là. Per me era tutto nuovo e, quindi, coinvolgente».

Quanto conta il silenzio, nella sua esperienza di scrittore?

«Il romanzo è la forma migliore per esplorare la differenza fra pensieri e parole. Puoi sapere che cosa passa per la mente di una persona, e poi guardare mentre quella persona non lo dice a nessuno. La casa dei nomi è piena di silenzi. I personaggi sanno quello che gli altri hanno fatto, però ci sono sospetti e tracce; e molte informazioni vengono nascoste, soprattutto a Oreste, ma anche a sua madre. E anche a Elettra, perché c'è silenzio intorno a come sua sorella è morta e a come suo padre è stato ucciso».

Nel romanzo la violenza è brutale e realistica. Perché?

«Tutti i personaggi hanno subito dei traumi. È importante che questo venga compreso pienamente. Avevo bisogno di fare provare al lettore quello che i protagonisti avevano provato, in tutta la sua brutalità».

Che cos'è la caduta degli dèi?

«Ho scritto il libro per un lettore moderno. Volevo un mondo, come quello del Ring di Wagner, in cui il potere degli dèi sta declinando; in cui alcune persone credono, ma altre no. Volevo fare vivere Clitennestra in uno spazio quasi secolare, così che non debba chiedere agli dèi di aiutarla, bensì, al contrario, in cui possa fare piani, avere strategie, che possono funzionare oppure no».

Succede anche nel nostro mondo?

«In Irlanda, lungo il corso della mia esistenza - sono nato nel 1955 - ho visto il potere della religione spostarsi dal centro alla periferia. Ma ci sono elementi che sono rimasti, forse i più potenti, perché sono nell'ombra».

Gli esseri umani sono descritti al loro livello animale, dominati da rabbia e paura. Aveva qualcosa in mente?

«Ho fatto reportage dall'Irlanda del Nord durante i Troubles e scritto anche un libro, Bad Blood, pubblicato nel 1987. E ho fatto reportage dalla Croazia, durante la guerra. In entrambi i luoghi c'erano paura e rabbia; le persone hanno fatto cose indicibili. E tutto questo vicino a casa».

La famiglia è come quella di Clitennestra e Oreste? Piena di segreti, odio e violenza?

«Questa è una storia estrema. È piena di tragedia. Non è la vita quotidiana».

Alla fine scrive che dobbiamo convivere con quello che abbiamo fatto. Perché quello che abbiamo fatto - Oreste ha ucciso la madre - è tutto ciò che abbiamo...

«All'inizio del libro, nella famiglia sono in cinque e quattro di loro pensano che ci sarà un matrimonio. Alla fine del libro, uno è stato sacrificato agli dèi e due sono stati uccisi. Ma i due che sono rimasti non hanno tratto grande soddisfazione dalla vendetta. Sono rimasti soli, specialmente Oreste, devastati da quello che è accaduto».

È un messaggio?

«Non c'è un messaggio.

Questa è una storia singola. Può avere molta risonanza, molto potere. Ma quello che voglio è che i personaggi rappresentino loro stessi, prima che facciano qualunque altra cosa: che siano individui che affrontano grandi sfide».

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