Lo psichiatra da analisi, vita senza freni di Lacan

In macchina non rallentava mai, camminava sotto il solleone. Nuotava nudo, anche al gelo

Lo psichiatra da analisi, vita senza freni di Lacan

Pierre Goldman, esponente dell'estrema sinistra francese e rapinatore famoso negli anni Settanta, «aveva in animo di ricattare Lacan». Poi però cambiò idea. «Era rimasto disarmato alla vista dell'uomo dai capelli bianchi che scendeva le scale del numero 5 di rue de Lille, tutto assorto nella sua riflessione». Risultato: «L'austera maestà del pensatore fermò il suo gesto». A raccontare l'episodio è Catherine Millot, una signora francese che oggi ha l'età che aveva Lacan quando era il suo professore all'università; età a cui poi divenne il suo psicanalista, il suo mentore e il suo amante, fino alla morte (nel 1981). Jacques Lacan era nato nel 1901 e, all'epoca in cui Millot lo incontrò e poi lo frequentò, cioè dal 1971 in avanti, era ormai da tempo il guru della psicanalisi di Francia. Insomma un mito, austerità e capelli bianchi, riflessione e clientela vip. Intesi come pazienti, con i quali aveva il suo metodo: per esempio li analizzava in pubblico, davanti ai suoi studenti. Non lasciava illusioni: «Dopo che il malato era uscito, non esitava ad affermare che esso era fottuto. D'altronde, capitava anche che lo dicesse al paziente stesso, il che aveva l'effetto sorprendente di sollevarlo».

Pare comunque che le sedute funzionassero, almeno per l'innamorata e giovane Millot, la quale dopo otto anni arrivò alla «grande svolta terapeutica»: «Il fondo d'ansia che mi abitava da sempre fu come spazzato via». C'è solo il dettaglio che la guarigione comportò la separazione dallo stesso Lacan, perché Catherine capì di volere un figlio: «Per me fu una lacerazione, per lui un terremoto». Continuò ad andarlo a trovare ogni giorno, per gli ultimi «due anni dolorosi», ma non dormì più da lui. Sarà anche per questa serenità, per questa «crudeltà» (parole sue) da lei stessa compiuta, e non subita, che Catherine Millot racconta la sua Vita con Lacan, novantasette pagine di ricordi e aneddoti, molti divertentissimi (appena pubblicato da Raffaello Cortina editore), «come un appuntamento da onorare, un modo di ritrovarlo».

Il primo modo è, innanzitutto, descrivere certi viaggi in macchina con Lacan (lei lo chiama proprio così, mai Jacques, sempre «Lacan»): «Testa protesa in avanti, abbarbicato al volante, incurante di ogni ostacolo... non rallentava mai, anche di fronte a un semaforo rosso, per non parlare del dare la precedenza». La prima volta, a duecento all'ora in autostrada, Catherine si mise a ridere. Altri passeggeri, come la nipote, erano terrorizzati. Una volta lo fermò la polizia: per superare le altre auto in coda si era messo a percorrere la corsia di emergenza. Non erano le uniche occasioni in cui fosse difficile fermarlo: in pieno agosto, subito dopo pranzo trascinava i suoi ospiti a camminare sui sentieri delle Cinque Terre, da un paesino all'altro, per poi tornare col treno. Stesso atteggiamento con lo sci nautico, che praticava a Manarola («tirava dritto»); e con lo sci, sulla neve a Tignes («lo vidi andar giù a rotta di collo per le piste: la sua temerarietà era pari alla mancanza di tecnica»). Lacan voleva arrivare al limite, il «nucleo irriducibile della realtà»: solo scontrandosi con esso si sarebbe fermato. Per esempio, successe con un guardrail: e allora smise proprio di guidare (era il '79).

Lacan si preoccupò anche dell'«educazione» di Catherine: in Italia la portava in giro per le chiese, ad ammirare i Caravaggio (era affascinato dal piede della Madonna dei pellegrini e si fece portare una scala dal sagrestano per osservarlo meglio), a prendere il tè con Balthus a Villa Medici, al ristorante L'Eau Vive, ritrovo della «Roma cattolica» con ragazze africane e asiatiche in costume, e poi a Venezia, dove tornavano almeno una volta l'anno e pranzavano all'Harry's Bar, «che Lacan amava più di ogni altro ristorante, al punto che il giorno di chiusura si sentiva perduto». Anche a Parigi, ogni sera Millot e Lacan andavano al ristorante, appena lui finiva di lavorare («riceveva pazienti dalle otto del mattino fino alle otto di sera»): lei passava a prenderlo in taxi e, se ritardava di cinque minuti, lo trovava «agitato e in collera sul marciapiede». A tavola, lui era sempre più preso da suoi «nodi borromei» (nodi di corda a tre anelli, che rappresentavano la sua concezione dello spazio) e non spiccicava una parola. Lacan era infedele (soprattutto alla fine delle lezioni, verso luglio). Raccontava a Catherine delle sue donne (preferiva «le trentenni»), di Marie-Thérèse a cui dedicò la tesi e che l'aveva mantenuto pagandogli i libri e le vacanze; di Olesia Sienkiewicz, la moglie di Drieu La Rochelle, «che aveva consolato dell'infedeltà del marito e che, evidentemente, gli era molto piaciuta». E poi Sylvia Bataille, la moglie, che un giorno vide insieme Lacan e Catherine e pensò a don Chisciotte e Sancho Panza (Lacan era don Chisciotte).

Nella casa di campagna di Guitrancourt, ogni giorno si buttava nudo in piscina e nuotava per due vasche, con qualunque clima. Lì, fra i Monet e i Giacometti, una volta Lacan aveva ricevuto anche Martin Heidegger con la moglie. Era il '55, Lacan fece visitare al filosofo tutta la zona in macchina (con la moglie urlante per la sua guida spericolata). Lacan ricambiò la visita vent'anni dopo, a Friburgo, accompagnato da Catherine. La signora Heidegger li accolse ordinando autoritaria di indossare le pattine, poi li portò dal filosofo, che era disteso su una sdraio, ed era già malato (morì l'anno dopo). Fatto sta che Lacan gli parlò senza sosta, Heidegger «per tutto il tempo non pronunciò verbo e tenne gli occhi chiusi».

A cena concesse qualche parola in più e, alla fine, regalò a Catherine una sua foto firmata: «Rimasi stupefatta per questo autografo da fan, che io non avevo sollecitato, ma lo conservai religiosamente».

Quando scoprì di avere un tumore, Lacan rifiutò le cure. In famiglia gli chiesero perché. «Così, per capriccio». Dice Catherine Millot di non averlo mai visto «avere paura di alcunché».

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