Alla morte di Luchino Visconti, avvenuta nel 1976, un solo regista italiano poteva raccoglierne l'eredità: Bernardo Bertolucci. Certo si trattava di un figlio illegittimo. Ma comunque figlio, almeno per quattro ragioni: la polemica antiborghese, la raffinatezza estetica, la cultura aristocratica, il dichiararsi di sinistra. Di fatto dal 1943, anno di esordio con Ossessione, questo era stato Visconti: un antiborghese, un esteta, un aristocratico e un intellettuale di sinistra. Bertolucci, nato a Parma nel 1941, figlio del poeta Attilio, esordisce nella regia cinematografia all'ombra di Pier Paolo Pasolini con La comare secca (1962). Ma non è un tardo neorealista. Si muove nella cultura del proprio tempo. L'ispirazione non va a cercarla nelle borgate romane, ma nella Parigi della Nouvelle Vague, in particolare nella nervosa insofferenza del rivoluzionario Jean-Luc Godard. Anche per Bernardo un movimento di macchina è un affare dalle implicazioni morali. L'uscita di Prima della rivoluzione (1964) anticipa i tempi: il Sessantotto è alle porte, e Bertolucci ne incarna l'essenza intellettuale e cinematografica. Odia la borghesia, come Visconti, quella borghesia di cui sono stati entrambi figli minori, in quanto aristocratici. Occorre uccidere il padre. Ed ecco Partner (1968). La morte del Padre in tutti i sensi. Bertolucci segue ancora Godard. Come lui si è perfino infatuato del maoismo parigino. Bernardo è un esteta. Marx, Mao, la lotta di classe, la rivoluzione culturale. Va tutto bene. Però è roba che invecchia con rapidità. Ferraglia pesante. Bertolucci avverte l'esigenza di una svolta: il Sessantotto è stato uno sconquasso totale. Ma non sul piano politico. Sotto le lenzuola. Prende congedo dal «Mao pensiero» con un'opera di grande bellezza visiva e fascino inquietante: Il conformista (1970), tratto da un controverso romanzo di Moravia. Il vero punto di svolta della carriera di Bertolucci. Sullo sfondo c'è la Parigi livida dei tardi anni Trenta, all'epoca dell'assassinio dei fratelli Rosselli. Il senso della morte aleggia pesante, accanto a quello della dissoluzione sessuale. Bisogna un po' morire per poter rinascere. È il senso del film successivo, Strategia del ragno (1970). Un racconto di Borges sull'intreccio di finzione e realtà, eroismo e tradimento. E poi la sua terra. Romagnola, parmigiana. Spira ancora il vento della Resistenza. Ma è un refolo. E trasporta odori poco rassicuranti. Occorre ripartire. Destinazione Parigi. Lì Bertolucci sta per diventare il più noto regista italiano e una celebrità internazionale. Ha fra le mani una storia drammatica e incandescente. E un immenso attore: Marlon Brando. Gli serve solo una giovane attrice capace di mettere assieme attrazione fisica e ingenuità. La scova in Maria Schneider. Nasce Ultimo tango a Parigi (1972). È una bomba. Macché! È un'esplosione nucleare. Il film rompe ogni argine. Al botteghino tracima. La magistratura al soldo della Democrazia cristiana pensa alla ghigliottina. Anzi, un bel falò. Dopo che l'hanno visto tutti, ma proprio tutti, esce la bolla di scomunica. Mai più pubbliche proiezioni e negativo al rogo. Come se un film si potesse far sparire, bruciando il negativo italiano. E quello francese? E quello americano? Scemenza colossale. Ultimo tango a Parigi evidenzia la morte: del cinema di ieri e di oggi, della famiglia, del matrimonio, dei sentimenti, della coppia, dell'erotismo, dell'intimità. Lo sguardo di Bertolucci è angosciante, oscuro. La decadenza ci sta azzannando la giugulare. Ma nessuno lo capisce. Lo ritraggono come un pornografo. In realtà è un artista aristocratico e decadente, al quale non sfuggono i segni inquietanti dei tempi. Li cattura nella Parigi capitale della decadenza occidentale, quarant'anni in anticipo rispetto ai romanzi di Michel Houellebecq. Dopo essere stato Nietzsche, ponendosi «al di là del bene e del male», Bertolucci decide di diventare Spengler. Nasce così l'«opera totale», il fiume di immagini di Novecento (1976). Trecento sontuosi minuti con un solo drammatico limite: l'ideologia marxista. La rivoluzione si inceppa nella vuota retorica del fascismo male totale, nel fascismo degenerazione del capitalismo, nel fascismo pagato dagli agrari con la pelliccia per bastonare i contadini, nel fascismo vigliacco che non sa trovare la dignità della morte. Novecento però fuga ogni dubbio: Bertolucci è il regista esteticamente più dotato della sua generazione. Ma come proseguire? Ci prova con il piccolo La luna (1979) e con l'altrettanto piccolo Tragedia di un uomo ridicolo (1981). Poi capisce. Vira a Oriente e realizza il mastodontico L'ultimo imperatore (1987). Il figlio del poeta di Parma, l'amico del poeta dei ragazzi di vita, l'allievo di Godard stupisce tutti. E chi l'ha detto che un regista italiano non sappia misurarsi con Hollywood? Bertolucci dimostra che si può. Nove Oscar. Meglio ripeterlo: nove statuette dorate. L'ultimo imperatore è Il gattopardo di Visconti nell'poca della globalizzazione, quando ancora di globalizzazione non parlava nessuno. Cosa fare ancora? Niente. Il resto della filmografia di Bernardo Bertolucci è un riempitivo di lusso: il trascurabile Il tè nel deserto (1990), il più trascurabile Piccolo Buddha (1993), i più trascurabili ancora Io ballo da sola (1996) e L'assedio (1998). Un po' di freschezza sprizza nell'apertura de I sognatori (2003), rivisitazione del Sessantotto. Poi solo stanchezza, che si trascina in Io e te (2012). In conclusione si può affermare che in Bertolucci si riflette al meglio l'avventura italiana del secondo Novecento. Per diventare veramente grande - il più grande di tutti - Bertolucci avrebbe dovuto liberarsi dell'ossequio alla cultura dominante (fardello che neppure Visconti è stato capace di gettare alle ortiche).
Dopo L'ultimo imperatore
avrebbe dovuto girare di nuovo Novecento, senza bandiere rosse, senza vinti e vincitori, senza superiorità morali. Ma è un dettaglio. Bernardo Bertolucci è stato il maggior talento visivo del cinema europeo tardo novecentesco.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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