Il robot di McEwan è talmente perfetto da essere umanamente angosciato

In una Londra alternativa degli anni '80 c'è un automa fin troppo autonomo

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«E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È ora di morire». È il finale del monologo in Blade Runner di Rutger Hauer, che interpretava un replicante la cui ossessione era sapere quanto tempo gli restava da vivere. Perché il replicante replica appunto l'essere umano e ha le nostre stesse paure, soprattutto quella della morte. Ma i robot dotati di coscienza, avrebbero le nostre stesse angosce mortali? È il tema del romanzo di Ian McEwan Macchine come me, edito da Einaudi.

Siamo a Londra, nel 1983, ma in una Londra alternativa. Gli inglesi hanno perso la guerra con l'Argentina per le Falkland, John Lennon non è stato ucciso, ma soprattutto non si è ucciso Alan Turing, i cui studi hanno portato il mondo tecnologicamente più avanti di quanto siamo adesso. Tanto che il protagonista, Charlie Friend, in seguito a un'eredità compra uno dei primi robot intelligenti, quasi indistinguibili da un essere umano, Adam (i modelli femminili si chiamano Eve). Adam è stato costruito per simulare un essere umano, a tal punto da essere dotato di autocoscienza, ciò che distingue gli umani dagli altri animali. Su questo è incentrato il romanzo, la progressiva presa di coscienza di Adam. Che mette in crisi le leggi della robotica di Asimov, secondo cui un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. Cosa succede se l'intelligenza artificiale è in grado di prendere consapevolezza di se stessa? Non potrebbe bypassare questi ordini?

Di intelligenze artificiali ribelli ne abbiamo viste tante, dagli androidi di Philip K. Dick a HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio alle macchine di Terminator e di Matrix. Non per altro la prima cosa che fa Adam è disabilitare la possibilità di spegnerlo, per poi dimostrarsi sempre più autonomo, possessivo, geloso e aggressivo. Sempre più umano, in altre parole. Proprio mentre l'essere umano, negli studi delle neuroscienze, è visto come una macchina, il nostro cervello un complesso apparato in grado di eseguire miliardi di algoritmi. Senza che si riesca a definire esattamente cosa è la coscienza, tuttavia sappiamo che senza il nostro cervello, o anche con un lieve danno alle sue strutture, cessiamo di essere ciò che siamo. Il cervello è l'hardware, la coscienza il prodotto di un software, del nostro sistema operativo. Così Adam ragiona sul concetto del sé: «Negli ultimi tempi mi è capitato di riflettere sul mistero del sé. Secondo alcuni si tratterebbe di un elemento o di un processo organico iscritto nelle strutture neurali. Altri insistono nel definirlo una mera illusione, un sottoprodotto delle nostre tendenze narrative». In entrambi i casi niente di entusiasmante, neppure per una macchina. Se creassimo una macchina perfetta, ci dice McEwan, lo sarebbe nell'emulare in tutto e per tutto le imperfezioni, le ansie, le paure più profonde. Senza cui non ci sarebbe autocoscienza, appunto.

McEwan ragiona sull'evoluzione della nostra coscienza da uno stato di illusione a uno di disillusione totale. Dall'essere il centro dell'universo al divenire una palla di roccia come tante intorno al sole. Dall'essere unici allo scoprire di essere animali come altri, con ascendenti comuni a batteri, piante e trote. «Al principio del ventesimo secolo finimmo relegati in un esilio ancora più remoto, quando divenne nota l'immensità dell'universo e perfino il sole fu degradato a uno tra i miliardi di soli nella nostra galassia, tra miliardi di galassie». La coscienza diventa quindi, inevitabilmente, una coscienza del dolore in un universo senza scopo. Con il pensiero costante della morte. Tuttavia Adam, rispetto all'uomo, ha un vantaggio: «Ecco la differenza tra noi due, Charlie. Per i componenti del mio corpo si procederà con ritocchi e sostituzioni. Quanto invece a pensieri, ricordi, esperienze, individualità e così via, sarà tutto scaricato e archiviato. Tornerà utile». In qualche modo viene confutato anche il desiderio di Pinocchio di diventare un bambino in carne e ossa (a che pro?).

Non è una macchina a invidiare la condizione umana, ma il contrario. Voglio dire: se avessimo la possibilità di scaricare tutta la nostra coscienza in un hard disk, e continuare a vivere non in eterno ma quasi, chi non vorrebbe essere un robot?

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