Luigi Mascheroni
nostro inviato a Torino
Perché quando leggiamo i Malvaldi, i Carofiglio, le Elena Ferrante, i Corona, i Volo - e tutti gli scriventi che riempiono le classifiche di vendita dei libri e molti incontri al Salone... - anche se non capiamo bene perché, sentiamo che non c'entrano nulla con la letteratura? Perché, anche se non siamo critici o storici della letteratura, percepiamo che tra i padri del nostro '900 (Svevo, Landolfi, Soldati, Tobino...) e la quasi totalità dei romanzi pubblicati oggi c'è un abisso incolmabile, e così continuiamo a rimpiangere i primi e a sopportare i secondi? Perché Gadda e Montale o La Capria e Arbasino non sono equiparabili con gli autori che vediamo vincere lo Strega e il Campiello, o che ascoltiamo da Fazio o ai festival? E non si tratta di alto e basso; si tratta di percepire che i primi sono libri che continuano una tradizione letteraria italiana, i secondi sono libri molto leggibili, spesso di successo, ma che sono comunque «un'altra cosa».
Bene. Le risponde le dà Giorgio Ficara, con la pacatezza piemontese dell'italianista all'Università di Torino (spesso ospite degli atenei americani) e la spietatezza del critico letterario allenato da lunghe e trasversali letture, il quale a chiusura del Salone del libro ha presentato il suo pamphlet Lettere non italiane (Bompiani): spiegando a frequentatori della fiera in cerca di libri quanti pochi siano i libri veri in circolazione.
Professore, lei dice che in giro c'è ben poca letteratura italiana «biologica». È tutta roba «tarocca».
«Sempre più spesso, da un po' di tempo, vedo che in quella cosa che chiamiamo letteratura entrano elementi che letterari non sono: una lingua giornalistica, gerghi, pure se Gadda diceva che servono anche i nitriti di cavallo. Quello che leggiamo oggi non ha più nulla a che fare con la letteratura di Pasolini, Calvino, Zanzotto o Parise... Non c'è più alcuna continuità tra quegli scrittori e, con poche eccezioni, quelli di oggi: li separa lo stile, la lingua, la coscienza del passato e della tradizione, che i primi avevano e i secondi no».
Qualcuno sosterrebbe che è un falso problema il suo. Cambiati i tempi, cambiati gli autori e quindi la letteratura.
«Ma così, senza la coscienza di questa discontinuità tra i maestri di ieri e i giovani scrittori italiani, ci si convince che la letteratura è sempre stata quella dei Baricco o degli Ammaniti e che la Mazzantini si può mettere sullo stesso piano di Charlotte Brontë. Invece non è vero».
Vuol dire che prima c'era solo buona letteratura e ora cattiva letteratura?
«No, voglio dire che buona e pessima letteratura possono stare assieme, e lo hanno sempre fatto, anche in epoca classica: ma lo facevano all'interno di uno stesso orizzonte condiviso. Dentro uno stesso modo di intendere e definire la letteratura. Oggi non sappiamo più cos'è letteratura».
Quale è la definizione di letteratura che abbiamo perso?
«Pontiggia diceva che la letteratura è critica del linguaggio. Montale che è una stregoneria, un linguaggio di cui non è possibile risalire alla composizione, ma che comunque non ha niente a che fare con il linguaggio dell'informazione. Che è appunto un'altra cosa. Ecco. Oggi la lingua dell'informazione prevale su quella letteraria. Peggio: la lingua dell'informazione, confondendo il lettore, viene trasferita nella letteratura come se fosse essa stessa una lingua letteraria. Invece la lingua letteraria italiana è emarginata, quasi sparita...».
Quasi, appunto. Mi parlava di eccezioni.
«Mah... ad esempio Francesco Biamonti o Sergio Atzeni, morto troppo presto. Tra i vivi, Arbasino e La Capria, che ora hanno 86 e 93 anni... Arrivo fino a Affinati che col suo romanzo L'uomo del futuro su don Milani porta dentro la non-fiction novel non solo un bisogno di verità ma anche di etica, e poi Antonio Franchini, tra i poeti Giuseppe Conte e Patrizia Cavalli... Le loro opere, con tutte le differenze dei singoli casi, sono ancora scritte in lingua italiana».
Gli altri?
«Gli altri scrivono in un altro italiano, più simile alla traduzione da un succinto inglese che da quella lingua altrettanto perfetta quanto immensa di cui parlava Leopardi. I romanzi che vanno in classifica e che si presentano qui in giro al Salone sono scritti in una non-lingua, omologata, piatta, una lingua che guarda soprattutto ai b-movies americani. Infatti io parlo di b-literature... Insomma se Gadda quando scrive La cognizione del dolore guarda ancora a Manzoni, pur non essendo Manzoni, un Paolo Giordano quando scrive i suoi romanzi non guarda né a Tozzi, né a Pratolini, ma neanche a Quarantotti Gambini... Semmai guarda, come tutta la sua generazione, al mondo dell'informazione, alla cinematografia americana, al linguaggio della tv, che è un linguaggio che ha una sua importanza, eccome. Ma la letteratura, che esige un contatto elettrico con il linguaggio, sta altrove».
È la distinzione fra letteratura da una parte e narrativa di intrattenimento dall'altra...
«No, è qualcosa di più. Un tempo si assistevano a felici coincidenze tra queste due cose, pensi a Dickens o a Dumas. Cioè: potevo soddisfare il bisogno primario che l'uomo ha di ascoltare storie con opere che erano anche letterarie. Oggi invece non succede più: mi chiedo se non sia più semplice e più remunerativo, cioè più appagante, soddisfare questo bisogno di storie guardando House of Cards che leggendo un pessimo romanzo».
Lei parla di b-literature, La Capria una volta ha parlato di «alieni» riferendosi ai giornalisti, presentatori, attori e politici che scrivono romanzi, altri parlano di «libroidi», cioè non-libri...
«Io non ho niente contro questa b-literature, come non ho niente contro un panino McDonald. Posso anche nutrirmene. Ma devo sapere che sono qualcosa di truccato. Come il secondo non è alta cucina, così la prima non è letteratura. Io, come critico e studioso, sento il dovere di proporre delle mappe, di indicare mondi di riferimento, ho il compito di dire: attento lettore, quello è giornalismo, magari ottimo, ma non letteratura, così come direi, attento quel panino è saporito, ma non è biologico. Devo dirlo. Perché il lettore, che poi naturalmente legge quello che vuole, da tempo non distingue più un Biamonti o un Meneghello da un Malvaldi o un Camilleri».
Da quando succede? Lei cita Umberto Eco...
«Infatti. Ora semplifico, ma per spiegare: prima, pur nelle differenti grandezze, c'era un continuo, per dire, tra Manzoni e Gadda, entrambi stavano dentro la letteratura. Con Eco le cose cambiano. È come se si facesse un trucco per confondere le carte.
Rimane il fatto che tra Gadda e Eco non c'è più alcuna continuità. Non tanto perché uno sia Literatur e l'altro Trivialliteratur, ma perché sono due grandezze non equiparabili. Si ricorda vero quel critico che diceva di Umberto Eco che sa tutto e non sa cosa scrivere?».
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