Scriviamo brutti libri perché parliamo male una lingua grandiosa

Presentato il nuovo dizionario Devoto-Oli. Ecco una riflessione d'autore su italiano e letteratura

Scriviamo brutti libri perché parliamo male una lingua grandiosa

Guardo in controluce la tastiera del mio computer e vedo che alcuni tasti sono più usati di altri. È normale. Sulla «y», sulla «k», sulla «j» e su segni di interpunzione come «\» si è depositata una polvere che la rara digitazione non mai riesce ad asportare del tutto.

Alfabeto e punteggiatura sono il materiale con cui costruiamo parole, frasi, periodi, racconti, romanzi. Guardando quei tasti dalla superficie più opaca mi domando chi abbia operato quella selezione che li ha posti ai margini del mio lavoro. È evidente, infatti, che io uso solo una parte del materiale che mi è offerto, e così noi tutti. Ma la domanda è: sono davvero io a operare la selezione?

Lo stesso vale per l'immenso patrimonio sintattico e lessicale della lingua italiana, accumulatosi attraverso una storia dove una straordinaria intelligenza si sposa a una libertà sempre difficile da conquistare, e bisognosa di essere sempre riconquistata.

E mi chiedo: di questo immenso palazzo, che è la Lingua Italiana, sono accessibili tutte le stanze? Quanti sono gli appartamenti segreti? Il fatto che io ne frequenti solo una parte - proprio come succede con la tastiera del mio computer - dipende da me o da qualcos'altro?

La Lingua, già. I dizionari ce ne mostrano le fotografie, «ci fanno vedere» le parole, ma non ce ne offrono l'accesso. Loro - i dizionari, dico - si espandono, si arricchiscono, si riempiono di novità, includendo di edizione in edizione parole o espressioni che fino a qualche anno fa non appartenevano alla nostra lingua; intanto, però, il numero di parole mediamente usate da un italiano medio scende, e i dati relativi alle giovanissime generazioni confermano la tendenza.

La presentazione, ieri a Firenze, Palazzo Pucci, del nuovo Dizionario Devoto-Oli (che sta alla nostra lingua come la Corte costituzionale sta all'ordinamento del paese) ci spinge a riflessioni consuete e mai risolte. La lingua è fascista, disse Roland Barthes in occasione del suo ingresso al Collège de France. Non so se questo valga per tutte le lingue, e non sono sicuro che sia vero in generale. Se i circuiti neuronali sono gli stessi per tutti (un amico libanese, che conosce 12 lingue, sostiene che «le lingue sono tutte uguali») esistono sicuramente lingue più pesanti, difficili da usare, figlie di una storia più pesante. E la nostra, ricca come detto più di talento che di libertà e di giustizia, ne è un esempio. Anche il francese è una lingua complicata. Diverso però è il rapporto che i francesi hanno con essa, più affettuoso, più familiare, fino a sconfinare nel nazionalismo. «Computer» è una parola che appartiene, credo, a tutte le lingue del mondo tranne il francese, che si ostina a chiamarlo «ordinateur», denotando una forma di sordità linguistica non priva di qualche virtù. Ma il francese conosce anche tutta una letteratura popolare/familiare, da Molière a Hugo, nella quale quel rapporto viene coltivato. La Rivoluzione francese fu anche una rivoluzione linguistica, nel senso che offrì alla lingua «Borghese» di ogni giorno modelli letterari «borghesi» ripetibili o quantomeno poco distanti.

Viceversa, i modelli italiani restano irraggiungibili, da Dante a Manzoni: troppo belli, troppo alti, da ammirare e venerare (quando succede) ma come dentro un museo. E non si può dire che i Manzoni, o i Collodi, non ci abbiano provato a mettere in contatto l'alto con il basso. Sono però mancati gli accendini, e l'incendio non c'è stato.

L'inglese è sicuramente più intuitivo, più semplice rispetto alle lingue latine, anche se la sua letteratura classica è scritta in una lingua così alta che non tutti gli inglesi di oggi mediamente acculturati sono in grado di leggerla. Però le sue figure di spicco, primo fra tutti Shakespeare, appartengono al tempo stesso anche al racconto popolare. Tutti gli inglesi conoscono Romeo e Giulietta, e le mamme, almeno fino a qualche anno fa, spaventavano i loro bambini evocando Puck e Oberon.

Da noi tutto questo non è accaduto. I nostri capolavori appartengono a una storia di élite. Si dice che i nostri bisnonni contadini conoscevano Dante a memoria: forse alcuni bisnonni, non certo tutti. Conoscevano, questo è certo, più vocaboli di noi, perché a differenza di noi quando qualcosa si rompeva dovevano aggiustarla (il che richiede diverse parole), mentre noi di solito la buttiamo via e ne compriamo una nuova. La lingua, insomma, non si compra con i soldi, e questa è una verità difficile da capire.

C'è poi il fatto che la letteratura italiana si è sempre più sviluppata su modelli d'importazione, in primis il Romanzo. È vero che I Promessi Sposi sta agli albori del Romanzo dell'800, ma è anche vero che la nostra narrativa non si è basata su quel modello - a parte Gadda, il cui strano destino è quello di essere contemporaneamente il più grande scrittore italiano del '900 e un perfetto sconosciuto, o quasi, dal Po in giù. Lui che, sì, ebbe l'ardire, o la follia, di forzare tante serrature, tanti ingressi segreti della nostra lingua, sempre meglio fotografata e sempre peggio usata.

Chiunque legga narrativa italiana oggi senza appartenere al club dei lettori-di-narrativa e a qualcuna delle sue conventicole non può non avvertire la difficoltà di uno scrittore italiano di oggi a trovarsi nella nostra lingua - quella del Devoto-Oli - come a casa propria. Difficile non rifugiarsi in qualche koinè di genere, o in una lingua gradevolmente scolastica.

E allora, che fare? Torna la domanda iniziale: come abitare in pace questa nostra bellissima, disabitata lingua?

Provo ad abbozzare una risposta. Nella prima parte di Gomorra, molto bella a prescindere dall'antipatia che Saviano può suscitare come intellettuale, lo scrittore sceglie un tipo di prosa più tipicamente italiana di quella del romanzo: sceglie la prosa storiografica, ed è una scelta felice. In altre parole: ha usato la lingua della sua formazione intellettuale. Saviano è infatti storiografo di formazione.

Questo è il lavoro che si dovrebbe provare a fare. Non tanto cercare l'accesso a una lingua «alta» ma nemmeno riprodurre piattamente un simulacro delle nostre koinè quotidiane. Se leggo in un romanzo «bella lì» o simili lo chiudo seduta stante. Dovremmo cercare, dentro le nostre lingue particolari, compresi i linguaggi professionali, una metafora che ne illumini il rapporto con la Lingua nella sua totalità.

Un vero scrittore fa questo, e non ha nessuna importanza se usa un vocabolario ristretto, uno scrittore non deve rincorrere le parole (altro pericolo non infrequente): Hemingway ha usato sicuramente meno parole di Proust o di Faulkner, ha usato la sua lingua, la lingua di un giornalista, eppure la luce che la sua arte ha gettato sulla lingua in toto, ossia sulla natura della comunicazione umana in generale, è stata improvvisa, nuova e definitiva.

Aprire le porte

segrete della lingua significa, credo, soprattutto questo. E che in questo i vocabolari ci siano compagni. Attraversare il palazzo della Lingua (fascista o no, poco importa) è attraversare il palazzo della Vita. Nulla di meno.

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