Sette donne alla ricerca della morte perduta

Nell'asettico Aldilà di "Oneiron" le protagoniste rivivono (e comprendono) le loro esistenze

Sette donne alla ricerca della morte perduta

Se la cornice è meglio del quadro, non è detto che il quadro sia male, tutt'altro. In fondo, che cos'è la Commedia dell'Alighieri se non una sublime cornice entro cui Dante imprigiona i suoi personaggi? E che cos'è il Tempo di Proust se non una cornice perduta entro cui Marcel fa altrettanto?

Diciamo subito, onde non essere accusati di blasfemia letteraria, che il riferimento ai due grandissimi riguarda la forma e la forma soltanto, perché qui parliamo (fino a un certo punto...) di tutt'altro. Non dell'austero fiorentino o dell'affettato parigino, ma di una bella signora quarantenne, finlandese, con il visino da strega buona, o da fata cattiva, scegliete voi, e del suo libro che si chiama Oneiron (Elliot, pagg. 383, euro 18,50, traduzione di Irene Sorrentino) che soltanto di striscio ci rimanda a Odos oneiron, ovvero La strada dei sogni, cantata da Nana Mouskouri.

La cornice approntata da Laura Lindstedt non è altro che la morte. Ecco perché Alighieri e Proust, sotto sotto, ci rimettono lo zampino di straforo. È uno spazio bianco, asettico, vagamente ospedaliero, dove i sensi non hanno più permesso di soggiorno, dove esistono soltanto gli oggetti con cui le protagoniste se ne sono andate (una parrucca rosso fuoco, uno stivale...) e con cui, nel desiderio di fare casa, di fare gruppo, loro costruiscono una sorta di appartamento mentale, di enclave incastonato nel nulla. Poiché loro, le sette compagne di sventura, non sono più persone: sono diventate forme astratte, come le idee di Platone, e fluttuano in un iperuranio dove a dettar legge è la memoria (messer Dante e monsieur Marcel - rieccoli - ebbero un'esperienza simile).

L'ouverture è per Ulrike, l'ultima arrivata nella comunità di recupero. Incontra la veterana, Shlomith, la magra, la magrissima. «Lei ricorda com'è stato svegliarsi qui: aprire gli occhi, mettersi a sedere, toccare incredula la superficie bianca sotto di sé. È terra? Neve congelata? Non è fredda, né calda. Plastica? Latex? Cemento dipinto? Non è morbido ma nemmeno duro». Poi, seguono Polina Scarpasola, Rosa Imaculada, Nina Moltoincinta, Wlbgis Calvomuta, Maimuna l'Atletica. Sette spose per sette sorelle, tradite da favole mutate in tragedie. Sono spettri, salme che risalgono come salmoni le rapide della vita fino allo zenit della dissoluzione, del grande passo definitivo. Polina, la russa, l'intellettuale del gruppo, fornisce una chiave di lettura a noi per il momento ancora umani e terrestri, prendendola in prestito dal maestro Emanuel Swedenborg, per il quale dopo la morte lo spirito umano si vede nel mondo degli spiriti sotto sembianze umane, identico a com'era prima.

Su un piano diverso, il piano di una non cercata, anzi fuggita e perfetta libertà, le sette donne sottopongono a indagine accurata, come in sette sottotesti di romanzi gialli, il loro pregresso, con errori e omissioni, colpe e peccati. Dal Mali a Marsiglia, da Zwolle a San Salvador, da Salisburgo a Mosca e a New York, la geografia interiore torna a materializzarsi in ricostruzioni approfondite e tormentate, in una sorta di seduta analitica collettiva dove le povere anime presenziano, come sul set di sette film, allo spettacolo che conduce alla loro fine.

La cornice opera da regista occulta, impone i limiti spazio-temporali. «Il morto - spiega ancora Polina - si trasforma nel suo pensiero e nella sua volontà, il corpo fisico smette di essere d'intralcio. Neppure la finzione è più possibile».

E come nel Polittico dei Sette Dolori di Albrecht Dürer assistiamo ai sette dolori di Maria, la quale, al centro, mostra uno sguardo perduto nella sua stessa memoria, qui siamo partecipi delle pene di sette amiche sconosciute, tenute insieme da una misericordia laica distillata in purezza nell'alambicco di Laura Lindstedt.

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