Ma la sinistra non volle capire e scelse l'eterna guerra civile

La grande biografia di Mussolini smontava i luoghi comuni sul Duce. L'Italia, politicamente fragile, non era pronta a ripensare il suo passato

Ma la sinistra non volle capire  e scelse l'eterna guerra civile

Quando nel 1975 uscì l'Intervista sul fascismo (Laterza) rilasciata da Renzo De Felice al giovane storico americano Michael A. Ledeen erano già stati pubblicati da Einaudi i primi quattro volumi della monumentale biografia di Mussolini: Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920 (1965); Mussolini il fascista. Vol. I: La conquista del potere, 1921-1925, (1966), Mussolini il fascista. Vol. II: L'organizzazione dello stato fascista, 1925-1929 (1968) e il più controverso di tutti, Mussolini il duce. Vol. I: Gli anni del consenso, 1929-1936 (1974). Nell'Intervista De Felice ripercorreva gli itinerari della sua lunga e faticosa ricerca e ne esplicitava la metodologia e le linee guida che l'avevano sorretta. Fu un vero e proprio detonatore di una guerra ideologica ancora oggi solo apparentemente sopita. A scandalizzare i maîtres-à-penser della vulgata antifascista erano, soprattutto, sette tesi, richiamate nell'Intervista, che costituivano il filo conduttore dell'opus magnum einaudiano: 1) il fascismo è stato a suo modo un fenomeno rivoluzionario e non la guardia armata del capitalismo industriale e agrario; 2) all'interno del fascismo, vanno distinti il «fascismo movimento», che conservava le idealità rivoluzionarie del Programma di San Sepolcro del 1919 e il «fascismo regime», sovrastruttura di una linea statalista e continuista dell'Italia umbertina e giolittiana; 3) il fascismo si configurò soprattutto come tentativo dei ceti medi emergenti - ed emersi grazie alla Guerra mondiale- di porsi come nuova classe dirigente; 4) il fascismo, almeno dal 1929 al 1936, godette di un largo seguito di massa; 5) il fascismo è caduto solo perché ha perso la guerra con la disastrosa alleanza con la Germania nazista; 6) il fascismo è altra cosa dal nazismo: il primo è un figlio spurio dell'illuminismo e della rivoluzione francese, il secondo è l'espressione di un'etica tribale e regressiva, che non vuole formare l'uomo nuovo ma riportare alla luce l'uomo antico ariano, che il cristianesimo e la civiltà dei lumi hanno tentato di corrompere; 7) il neofascismo, alla destra del MSI non ha nulla da spartire col fascismo storico e, semmai, nutre nostalgie neo-naziste.Tesi come queste facevano a pezzi quello che era stato il mito di fondazione della Repubblica democratica: l'antifascismo. Nel 1946, esso rappresentava l'unico legame tra i partiti che avevano fatto la Resistenza e che, a parte la condanna morale e politica della dittatura, non avevano null'altro che li accomunasse. Che si vedesse nel fascismo una squadra di mazzieri al servizio dei potentati economici in funzione antioperaia (interpretazione marxista); che lo si vedesse come l'autobiografia della nazione ovvero il riemergere di antiche tare dovute alla Controriforma o al dominio straniero (interpretazione radical-democratica o azionista); o che lo si vedesse, infine, come una malattia morale prodotto della crisi postbellica e riguardante non solo l'Italia (interpretazione liberale): in tutti e tre i casi, sarebbe stato difficile condividere le parole del più grande storico della Rivoluzione francese del secondo Novecento, Fraçois Furet: «La storia cerca di comprendere il passato, e in passato il fascismo ha suscitato in Europa - non soltanto in Italia o in Germania, ma anche in altri Paesi d'Europa - l'entusiasmo di milioni di uomini e questo è un fatto storico che bisogna comprendere».Restava vero, tuttavia, che il mito antifascista della dittatura impostasi a suon di manganellate a un popolo riottoso e ostile, riuscì forse a evitare, nell'immediato periodo postbellico, una guerra civile che i grandi realisti della politica del tempo (da De Gasperi a Togliatti) riuscirono a scongiurare. Il prezzo pagato in termini di cultura civica fu però molto alto, giacché per consolidare l'arco costituzionale delle ideologie legittime, non solo si elaborò - complici, soprattutto, gli azionisti - una mistica antifascista, che in sostanza faceva della democrazia un attributo dell'antifascismo (sicché si rifiutava la patente di democrazia a quanti la negavano a una parte consistente della Resistenza) ma, in nome del rifiuto dell'Italia liberale, che non aveva saputo impedire la marcia su Roma, si condannò come reazionario ogni tentativo di restaurare le libertà democratiche senza riempirle di contenuti sociali, ogni discorso sulle «regole del gioco» che rinunciasse a rendere obbligatorio un «determinato gioco». In tal modo, però, quel mix giacobino di gramscismo e di azionismo, che è il basso continuo della sinistra italiana, riusciva a imporre non il sacrosanto diritto di libertà di militare a sinistra (anche estrema) ma la costituzionalizzazione del suo progetto riformatore. Sennonché mentre la democrazia formale poteva essere accettata da tutti sia da chi se ne accontentava sia da chi la riteneva insufficiente la democrazia sostanziale, ancora oggi all'ordine del giorno, non poteva essere l'ideale di tutti ma soltanto di una parte (diciamo, per essere generosi, la metà) del popolo sovrano. Ne derivavano spaccature pericolose, sulle quali gli anni del boom economico avrebbero messo la sordina ma che sarebbero riemerse, sempre più numerose, in seguito alle effervescenze sociali venute alla luce dal 1968 in poi. I lavori storici di De Felice, arrivarono negli «anni formidabili» di Mario Capanna: troppo tardi! E, pertanto, furono la grande occasione perduta per un Paese civilmente maturo che fosse intenzionato non a rimuovere o a demonizzare il passato ma a comprenderlo nelle sue cause e nelle sue ragioni profonde storiche, politiche e culturali. Grazie a quei lavori il fascismo si configurava come la reazione liberticida (e, quindi, tutt'altro che esemplare e degna di rimpianto) al pericolo che andasse in frantumi la comunità nazionale: una risposta sbagliata, però, a sfide reali e drammatiche, che avrebbe dovuto far guardare con equanimità ai suoi protagonisti, che quelle sfide vollero fronteggiare con una dittatura oscillante sempre tra la tecnocrazia (il dirigismo socialisteggiante) e la politica di potenza (l'eredità nazionalista).Il grande problema del liberale De Felice non erano le ideologie ma la «comunità politica»: come, obiettava all'illuminista Norberto Bobbio, possono «stare insieme delle comunità senza un'idea || Che cosa unisce delle società umane se non un elemento culturale legato alla tradizione, alla particolarità di un territorio?». E in uno scritto, a mio avviso, tra i più significativi e sostenuti sotto il profilo teorico degli ultimi anni, Democrazia e stato nazionale (1994), si chiedeva come potessero sopravvivere le democrazie incapaci di tutelare «certi valori (uso questo termine senza caricarlo di alcun significato particolare, positivo o negativo che sia). E questi valori, contrariamente a quanto spesso si pensa, sono sentiti da molti uomini come l'unica difesa dall'alienazione e dall'isolamento».De Felice che assimilava, a mio avviso, in modo discutibile, la democrazia descritta da Tocqueville allo Stato nazione accusati entrambi di aver fatto sentire gli uomini «una sorta di formiche lavoratrici in una società che assicura sì (e non sempre) un certo benessere materiale, ma sottrae la possibilità di fare delle scelte effettive» - anticipava lucidamente tematiche da qualche tempo riprese da studiosi di diverso orientamento etico-politico, da Pierre Manent a Roger Scruton, da Jeremy A. Rabkin a John H. Schaar. In fondo, se gli era del tutto estraneo l'approccio marxista ai processi sociali e politici, non si appiattiva affatto su quello culturalista del pur tanto ammirato George L. Mosse.

Dietro le sue inquietudini di studioso, c'era il fantasma che aveva assillato le grandi menti del nostro Novecento Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Gioacchino Volpe, Rosario Romeo -: il fantasma dello Stato risorgimentale e del suo destino.

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