È da salutare con soddisfazione l'uscita in italiano de Lo Stato di Anthony de Jasay (IBL Libri, pagg. 396, euro 22). Quando fu pubblicato in lingua inglese, nel 1985, il volume segnalò all'attenzione degli studiosi un pensatore di assoluta originalità, la cui elaborazione intellettuale è inseparabile dalle vicende spesso drammatiche del nostro tempo. Nato in Ungheria nel 1925, de Jasay lascia il suo Paese quando è instaurato il regime comunista. Dopo studi in economia e alcuni anni trascorsi quale ricercatore all'università di Oxford, entra nel mondo finanziario e imprenditoriale, coltivando in parallelo una crescente attenzione per la filosofia politica, a cui in seguito si dedicherà totalmente.
Un elemento di originalità di questo volume - cui ne seguiranno altri, pure molto interessanti - consiste nell'esaminare lo Stato come se fosse un'entità unitaria, dotata di una propria capacità di agire e decidere. A partire da questa ipotesi l'autore sviluppa una riflessione che evidenzia come il potere moderno sia per sua natura orientato a invadere ogni ambito e a distruggere ogni libertà. L'esito anarcocapitalista di de Jasay, allora, è solo la logica conseguenza di una riflessione rigorosa sullo Stato e sul fatto che ogni tentativo di contenerlo è destinato a fallire. Se si vuole salvaguardare le libertà, bisogna pensare ad altre istituzioni. Siamo insomma dinanzi a una versione molto radicale del liberalismo classico, la quale non lascia alcuno spazio al potere pubblico e però ha fondamenta assai originali. Una parte rilevante della tradizione liberale (da Locke a Jefferson, a Rothbard) poggia primariamente su argomenti morali e sul rigetto dell'aggressione, della violenza a danno di innocenti. Un altro filone, non meno significativo (fin dal tempo dei moralisti scozzesi), difende la libertà nella persuasione che esista una superiore efficienza degli ordini spontanei rispetto a quelli pianificati, che non possono disporre delle conoscenze necessarie e non sono in grado di porre le premesse per una società ordinata.
In questo volume di de Jasay, invece, più che ogni altra cosa è cruciale l'analisi realistica del potere, dal momento che il dominio statale è destinato a dilatarsi sempre più. E mentre un'impresa privata è chiamata a massimizzare gli utili (ma in tal modo, in un ordine di mercato, è costretta a mettersi al servizio dei consumatori), una struttura monopolistica e collettiva quale è appunto lo Stato deve massimizzare il proprio potere arbitrario sugli uomini. Ne deriva che la prima è orientata ad allargare la clientela dando soddisfazione al pubblico (questo avviene, in particolare, quando essa innova e quindi nessun altro è in grado di offrire quei beni o servizi), mentre la seconda è destinata ad assumere tratti sempre più totalitari, avendo bisogno - a tal fine - di coinvolgere in maniera crescente la popolazione grazie a politiche di carattere redistributivo. Il risultato finale è un caos di abusi e privilegi in cui non vi è più spazio per il diritto.
La struttura del volume mira proprio a far comprendere questo. Il lettore è preso per mano e costretto a prendere atto che con la nascita del monopolio statale la vera utopia è quella di un potere limitato, volto solo a tutelare proprietà e contratti. Ogni tentativo di usare lo Stato per tutelare i diritti si rivela quindi ingenuo e velleitario.
In anni dominati dal conformismo degli studi sul gender, sulla giustizia come eliminazione delle diseguaglianze, sull'ecologismo e via dicendo, de Jasay ha focalizzato l'attenzione sulla mostruosa espansione conosciuta dal potere di alcuni su altri.
Accostare tale autore, allora, spinge a ragionare al di là dello Stato stesso: a vedere nello Stato un problema, assai più che una soluzione. Ed è per questo motivo che bisogna sperare che questo volume trovi in Italia lettori attenti e in grado di cogliere la forma della sua proposta teorica.
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