Tarabbia sale al Calvario senza l'aiuto della fede

In "Il peso del legno" l'autore affronta con ottica profondamente laica lo scandalo della Croce

Tarabbia sale al Calvario senza l'aiuto della fede

Quando leggo un libro, mi chiedo sempre: c'è uno scrittore, qui? E, se c'è, dove sta? Nel pensiero? Nello stile? Nella capacità affabulatoria? In quella argomentativa? O in altro? Ma lo scrittore, quando c'è, ti salta addosso dalle pagine del libro, pretende che tu lo legga, che tu entri in una strana, realissima comunione con lui, se necessario ti fa violenza.

È quello che mi è capitato nei giorni scorsi leggendo un libro bellissimo, forse il più bello che io abbia letto da diverso tempo, Il peso del legno di Andrea Tarabbia (NNE editore, pagg. 203, euro 14). Il primo motivo d'interesse sta nella collana, CroceVia, in cui il libro è collocato. Essa nasce da una bellissima idea di Alessandro Zaccuri e del suo editore: quella di affidare ad alcuni scrittori non dichiaratamente credenti alcune parole nate dalla tradizione cristiana e di cui facciamo tutti un uso quotidiano anche a prescindere dal loro significato d'origine.

«Croce» è una di queste parole, ed è il tema che Tarabbia si è preso a cuore. Che cos'è, per un intellettuale italiano quarantenne, docente universitario e residente nella colta e laica Bologna, la «croce»? Cosa rappresenta questo richiamo a una fede che non risparmia né il dolore fisico né lo scandalo cui è sottoposta la ragione, qualcosa che ricorda il credo quia absurdum di Tertulliano? È ancora possibile dire «sì» consapevolmente a una sfida così radicale e in apparenza così anacronistica?

La forma in cui si presenta questo libro - non saggio, non narrazione, non autobiografia ma tutte queste cose insieme - non trova paragoni se non in generi letterari frequentati in tempi antichi (da Seneca ad Agostino), i vari soliloquia ripresi nello scorso secolo soprattutto in Francia (per esempio Bernanos, Camus, France) sulla tradizione di Montaigne, Pascal, Bossuet. Ma la sua forza ha un'altra radice, di cui lo stesso Tarabbia non sembra del tutto consapevole. Serio e scrupoloso fino a sfiorare la pignoleria, Tarabbia interroga senza sosta i Vangeli e altre opere che li riguardano per cercare di capire quale dramma si consumò, in quei famosi giorni, a Gerusalemme, come si svolse il processo, chi erano Giuda, Pilato, Simone il Cireneo e gli altri attori di quello che è stato il più grande dramma di ogni tempo. E soprattutto per cercare di capire se ciò che quel supremo sacrificio propone sia ancora proponibile alle miserie dei nostri giorni.

L'impresa è troppo grande: la bibliografia usata è un miliardesimo di quella prodotta sul tema, né potrebbe essere diversamente, ed è inevitabile che molte delle interpretazioni presentate risultino già note. Ma Tarabbia non ha paura di questa insufficienza, ed è questo un segno importante, il segno del vero scrittore. Non nasconde i propri limiti, i propri cortocircuiti narrativi, talvolta si getta in considerazioni narratologiche che appaiono fragili forse ai suoi stessi occhi, ma tira avanti. Cammina, cade, si rialza, procede lungo un cammino pieno di dubbi ma troppo importante per essere interrotto. Il piglio è davvero commovente e degno di un vero, oserei dire grande scrittore. Come un amico, giunto per la prima volta nella città dove noi siamo nati, Tarabbia parla dei Vangeli con una freschezza che io - che ci convivo da quando ero adolescente - devo imparare da lui. Raffronta i sinottici tra loro e questi con la versione giovannea, con osservazioni la cui importanza sta in primis nel modo in cui quei fatti risuonano in lui e di conseguenza risuonano sulla pagina.

Poco importa se tutto questo lavoro abbia prodotto in lui un cambio di prospettiva sulla religione cristiana. L'impressione è che no, Tarabbia continui a pensare alla fede e alla ragione come a due sfere incompatibili e che la sofferenza patita da Cristo sulla croce sia improponibile per un uomo del nostro tempo. Rimprovera a Gesù - secondo un cliché interpretativo di radice positivista - di avere «usato» Giuda e Pilato come attori necessari alla Sua gloria per abbandonarli poi alla perdizione. Ma, una volta tanto, non è l'interesse del pensiero a dominare, bensì un'altra cosa, ben più importante: la partecipazione, l'energia, la domanda sempre disperata di risposte ma sempre riaccesa, che investe queste pagine, il cui cuore non è, poi, la vicenda personale di Gesù di Nazareth, ma quella dello stesso Tarabbia, un figlio come tutti alle prese con la salute incerta del padre, con la somiglianza fisica e caratteriale che li unisce, con la paura di quello che non sappiamo, e che perlopiù non reca notizie felici: invecchieremo, ci ammaleremo, moriremo, e lo stesso accadrà dei nostri figli.

Questa è la porta che spalanca sulla profondità del libro, che non è una ricognizione sulla vita di Gesù in cerca di risposte, bensì una conversazione, sincera fino alla brutalità, tra due figli - lo scrittore e Gesù Cristo - ambedue alle prese con un padre, e con l'enigma della sua perdita, della sua morte o del suo crudele abbandono. Tarabbia scruta per fortuna senza successo una personalità troppo complessa, ne rileva gli aspetti che appaiono contraddittori, talvolta lo rimprovera, altre volte ne rimane sconcertato, per poi scoprire - come dovrebbe accadere a tutti - che il vero sconcerto non riguarda mai Dio ma riguarda piuttosto noi stessi, e tutto ciò che emerge da noi stessi ma per così dire «fuori quadro», come a dire che ciò che siamo veramente non ha quasi nulla a che vedere con ciò che pensiamo - anche fermamente - di essere.

Il peso del legno è un alto e inquieto grido.

Le stesse domande si ripetono, le stesse risposte seguono, ma le domande si riaprono, la ferita non si chiude, la grande questione della nostra esistenza sulla terra non accetta consolazioni, e Gesù Cristo, con la sua ignominiosa morte e la sua incomprensibile resurrezione, è e rimane - per credenti e non credenti allo stesso modo - il solo segno che ci è dato, il solo interlocutore storico, la sola fonte delle parole che noi non possiamo non affrontare se vogliamo trovare, per questo enigma, non diciamo una chiave, ma quantomeno un senso possibile.

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