Tugrul Tanyol, turco e laico fra Aragon e i sufi

La Turchia è un grande Paese nevralgico sulla scacchiera mondiale, eppure in Italia si sa poco della sua cultura. E in particolare si sa poco della sua poesia, che è rigogliosa e vitale. Il libro di Tugrul Tanyol appena pubblicato, Il vino dei giorni a venire (Giuliano Ladolfi editore, pagg. 276, euro 20) lo testimonia

Tugrul Tanyol, turco e laico fra Aragon e i sufi

La Turchia è un grande Paese nevralgico sulla scacchiera mondiale, eppure in Italia si sa poco della sua cultura. E in particolare si sa poco della sua poesia, che è rigogliosa e vitale. Il libro di Tugrul Tanyol appena pubblicato, Il vino dei giorni a venire (Giuliano Ladolfi editore, pagg. 276, euro 20) lo testimonia. E ci offre l'occasione di entrare nel mondo di uno dei maggiori poeti turchi viventi.

Tanyol ha una formazione occidentale, nasce nel 1953 in una famiglia di intellettuali repubblicani, studia al Liceo francese di Saint-Joseph, legge Racine e Hugo, Aragon e Apollinaire. Cosmopolita, laico, bevitore e mangiatore eccellente, mi è stato spesso compagno in incontri di poesia, in giro per il mondo, e ho subito avvertito le affinità fraterne che ci legano. Tra i suoi romanzieri preferiti, Stevenson e Dickens, Zola e Hamsun. Una sua passione è la musica barocca. Non ha sentito influenze della poesia turca contemporanea, neppure di Nazim Hikmet, eppure parla di Yunus Emré, il mistico sufi fondatore della poesia turca, con il rispetto con cui noi parliamo di Dante. La sua laicità piega a un certo punto non verso l'Islam ufficiale, ma verso il sapere dei sufi, verso un misticismo eretico, panteista. Leggere le sue poesie è compiere una esperienza di confine, fra la tradizione occidentale e quella ottomana e orientale. C'è un lirismo acceso, metaforico, visionario: si vedano poesie come Navi cariche di colombe morte, o Giorni di rondine, con questo attacco bellissimo: «Giorni miei di rondine! Chi può ritrovare/ il vostro profumo di menta e di timo». Ci sono appassionate poesie d'amore: «Io ti amo così, come un sasso/ discende senza mai finire/ dall'infinito al prossimo abisso», e poesie di amicizia, come Un bel viaggio, dedicata a un amico scomparso: «Quarant'anni di amicizia/ tanto cibo, musica, poesia e bevute...» dove i piani spirituali e materiali dell'esperienza coincidono. E ci sono poesie su Istanbul, capitale del cui spirito Tanyol è profondamente imbevuto.

Come nota anche Nicola Verderame, al quale si deve l'ottima traduzione, la parte lirica e quella politica nell'opera di Tanyol non sono separate da un taglio: spesso i temi e i toni si intersecano, arricchendosi entrambi. Della guerra, dell'oppressione, dell'orrore sono i risvolti umani che contano. In Bassora, sullo sfondo della Guerra del Golfo, il poeta di fronte alla devastazione si chiede: «Dio mio, dov'è la chiave promessa del paradiso?». E in altre poesie che parlano di Gezi Park e di Piazza Taksim descrive la tensione dei rami di un albero verso la luce, consapevole che l'uomo oscuro «non ama il verde» e che esiste «una infinita resistenza della giovinezza».

Una stupenda Poesia dei vasi, in cui figurano vasi «panciuti», «incrinati», «sinuosi», «a forma di drago», così intimamente mediorientale, allarga i suoi confini di evocazione sino a Li Po e a Pound. Io mi sento più a casa con lui che con tanti poeti italiani. E invito i lettori italiani a scoprirlo, finalmente.

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