Addio a Gigi Radice Costruì la leggenda del Toro all'olandese

Portò i granata allo storico scudetto del '76 Si ispirava a Cruijff, ma gli piaceva Mou

Addio a Gigi Radice Costruì la leggenda del Toro all'olandese

«E hi ragazzo, al bar si muore». Inizio dicembre 1981, Milanello, chi scrive era al suo secondo servizio da giornalista sportivo al Giornale. Il primo era stato dedicato all'Inter. In carica ad Appiano Gentile Eugenio Bersellini che se n'è andato il 17 settembre 2017. Bersella, il sergente di ferro, più giovane di un anno, ha anticipato di dieci mesi il viaggio del tedesco. Luigi Gigi Radice è morto ieri a Monza, senza raggiungere gli 84 anni (15 gennaio). Soffriva da tempo di alzheimer. Quel giorno a Milanello, Gigi se ne uscì con quella citazione di Gianni Morandi (Al bar si muore), per mettere in guardia il giocatore: una parola di troppo ai giornalisti uccide. Brianzolo di Cesano Maderno, Gigi Radice di assiomi ne aveva tanti. Molti sono stati raccolti da Francesco Bramardo e Gino Strippoli nel libro Gigi Radice, il calciatore, l'allenatore, l'uomo dagli occhi di ghiaccio (Priuli&Verlucca) appena uscito. Alla presentazione tanti giocatori del Torino 1976, l'ultimo scudetto granata porta la sua firma, con le sue idee e il suo calcio d'avanguardia.

«Noi non siamo qui per prendere in giro la gente ma dobbiamo offrire un calcio bello e divertente». Prima che la malattia lo strappasse alla realtà, Radice aveva anticipato anche uno dei dibattiti dell'ultima ora. «Il calcio di adesso mi sembra sopravvalutato. Per un certo tempo il livello è stato buono, ma ora non più. Certe squadre fanno risultato, ma il gioco non c'è». Radix era stato un precursore. Un sacchiano quando Arrigo Sacchi faceva un altro mestiere, un contiano quando Antonio Conte aveva i calzoni corti. Gigi Radice predicava il calcio totale in contemporanea all'Olanda Meccanica di Cruijff. In Italia il totaalvoetbal lo faceva il suo Torino: pressing, fuorigioco, attaccanti di movimento. Teorizzava la rilevanza dell'allenatore, più motivatore che tattico. Infatti gli piaceva Mourinho. «Non ci sono giocatori che allenano in campo, ma giocatori che fanno gruppo, che cementano la squadra». Era stato un terzino sinistro ruvido ma efficace. Col Milan vinse tre scudetti e la Coppa dei Campioni del 1963. Proprio in quell'anno un infortunio al ginocchio ,che ora si risolve in day hospital, gli troncò la carriera.

Una delle sue ultime interviste, forse proprio l'ultima, per i suoi settant'anni, nel 2005 quando cominciarono le prime amnesie, gliela feci io sul Corriere della Sera. Rivelò due passioni, Maradona e Martins, il più grande con cui aveva giocato Pepe Schiaffino. «Prevedeva tutto, tornava indietro a centrocampo a conquistare il pallone. Alle stelle di adesso non viene più chiesto, sembra che li sminuisca». Forse gli sarebbe piaciuto Mandzukic. Ma non era manicheo, del suo Toro amava i grandi solisti e ricordava l'emozione dei 50 metri che lo portavano dall'uscita del tunnel alla panchina di San Siro. «Non finivano mai».

Si sedette sulle due sponde. Al Milan (1981-82) non sfondò, momento sbagliato, il passaggio da Colombo a Farina, giocatori inadatti, anziani viziati, giovani immaturi. All'Inter fu diverso: non ottenne grandi risultati, ma creò un gruppo unito, molti di quei giocatori vinsero lo scudetto dei record 1989. Fortemente voluto da Sandro Mazzola, secondo una delle leggende che lo circondavano, il presidente Fraizzoli gli avrebbe chiesto, al momento della firma, se fosse veramente comunista come si mormorava. La storia lo divertiva, ma ha sempre negato (che Fraizzoli gliel'abbia chiesto).

In quell'ultima intervista, ottenuta grazie a Ugo Allevi, dell'ufficio stampa del Milan, suo genero, rivelò di non amare il chiacchiericcio. «Guardo le partite alla tv, ma senza volume, non sono d'accordo quasi mai con quello che dicono».

Altra leggenda: era un tombeur de femme. Vero o falso che fosse, lo accompagnò sempre. Il 3 gennaio del 1983, quando venne esonerato, via Processo del Lunedì, da Vittorio Cecchi Gori, al sesto posto in classifica con la Fiorentina, poi retrocessa, si vociferava che c'era di mezzo una donna più che i risultati a scatenare la furia del padrone. Il suo percorso da tecnico cominciò e finì al Monza. I migliori anni in panchina li passò al Toro, in due tranche. Dopo lo storico scudetto del 1976 anche due secondi posti (1977, 1985). Chiuse nel 1998, riportando il Monza in serie B.

Tra le altre dicerie su di lui, una riguardava il grave incidente del 1979 sull'autostrada dei Fiori in cui perse la vita l'amico Paolo Barison. Gigi Radice dopo, non sarebbe stato più lo stesso.

Quando ci lasciammo, quella fredda sera del 15 gennaio del 2005, mi disse: «Non mi lamento, sia da giocatore che da allenatore mi sono tolto qualche soddisfazione. Anche se si può fare sempre meglio. Forse avrei potuto allenare ancora un po', ma, a pensarci, il mio tempo l'avevo fatto». Solo chi è veramente cosciente di se stesso non ha rimpianti.

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