Cinquant'anni fa l'Italia del calcio aveva già perso la sua innocenza. Lo aveva fatto nel corso di una partita giocata agli antipodi, una partita sconvolgente per la violenza e l'intensità, che mise fine a un Mondiale maledetto, che riassume tutti dei vizi del pallone italico di allora e qualcuno di oggi (nel frattempo ce ne siamo assicurati tanti altri). Una partita-romanzo, raccontata oggi in un bel libro di Alberto Facchinetti, «La battaglia di Santiago» (Urbone Pubishing, 118 pagine, 12 euro).
È il 2 giugno 1962. L'Italia allenata dal duo Giovanni Ferrari-Paolo Mazza, affronta la seconda partita del girone eliminatorio dei Mondiali di Cile, dopo aver pareggiato 0-0 la prima contro la Germania Ovest. È un'Italia ambiziosa ma isterica quella giunta in Sudamerica. Femmina, direbbe Gianni Brera, che in questa vicenda avrà parte non secondaria. Secondo alcuni tecnici una squadra che potrebbe vedersela con il Brasile di Pelè. Una squadra con quattro oriundi, sudamericani naturalizzati spesso in modo disinvolto per arricchire la scuderia azzurra, anche se a molti questo escamotage fa storcere gli occhi: dei 22 convocati fanno infatti parte Omar Sivori, Humberto Maschio, Angel Benedicto Sormani e José Altafini, campione del mondo in carica per aver vinto il titolo con il Brasile nel 1958. A questi talenti capricciosi si aggiungono gli italiani: un giovane Gianni Rivera, e poi Mora, Salvadore, Bulgarelli, una schiera di futuri grandi allenatori (Trapattoni, Radice, Maldini senior), un portiere (di riserva) di nome Buffon - Lorenzo, prozio di Gianluigi.
Quel 2 giugno allo stadio Nacional, solo due giorni dopo aver giocato la dispendiosa partita contro i tedeschi, l'Italia affronta i padroni di casa. Ed è una partita maledettamente difficile. Non solo perché non è mai semplice affrontare chi gioca in casa. Ma anche perché i cileni ce l'hanno a morte con noi. Colpa di due giornalisti che nei giorni che hanno preceduto l'inizio del Mundial hanno mandato dal Cile in Italia delle corrispondenze ritenute offensive per il Paese sudamericano. Articoli in cui l'assegnazione del mondiale di calcio al Cile viene raccontata come un'assurdità. «Un campionato del mondo a tredicimila chilometri di distanza è pura follia. Il Cile è piccolo, è povero, è fiero: ha accettato di organizzare questa edizione della Coppa Rimet, come Mussolini accettò di mandare la nostra aviazione a bombardare Londra. La capitale dispone di settecento posti letto. Il telefono non funziona. I tassì sono rari come i mariti fedeli. Un cablogramma per l'Europa costa un occhio della testa. Una lettera impiega cinque giorni», scrive il grande Antonio Ghirelli per il Corriere della Sera. «Denutrizione, prostituzione, analfabetismo, alcolismo, miseria, sotto questi aspetti il Cile è terribile e Santiago dolorosamente viva, e tanto viva da perdere persino le sue caratteristiche di città anonima», va oltre per La Nazione Corrado Pizzinelli, che ha anche l'aggravante di non essere un giornalista sportivo, ma un reporter indifferente al calcio che una volta scritti i suoi pezzi intinti nel veleno riparte per l'Italia prima del calcio d'inizio.
L'onta viene lavata sul campo. La partita è un'interminabile rissa considerata vergognosa dalla stampa internazionale. I cileni sono bravissimi ad approfittare dell'incapacità dell'arbitro inglese Kenneth Aston, grande innovatore - anni dopo inventerà i cartellini giallo e rosso - ma disabituato a simili scene. Lèonel Sanchez, talentuosa ala sinistra, distribuisce in egual misura dribbling ubriacanti e pugni devastanti. Uno colpisce Humberto Maschio nella rissa che segue all'espulsione di Giorgio Ferrini, punito per uno sciocco fallo di reazione su Landa dopo soli sette minuti di gioco. L'altro prende in pieno Mario David, difensore italiano, in uno scontro di gioco che l'arbitro ignora e che fa da preludio all'espulsione dell'italiano nel secondo round del match con Sanchez. Così alla fine del primo tempo l'Italia si ritrova con due uomini in meno, due pugni presi e tanta rabbia in corpo. Eppure gli azzurri reggono fino alla mezz'ora del secondo tempo, quando un'uscita sbagliata del portiere Mattrel provoca il gol di Jaime Ramirez. Poi Jorge Toro - che avrebbe giocato nella Sampdoria e nel Modena - con una fiondata realizza il 2-0 che chiude una delle pagine più vergognose del calcio mondiale.
L'Italia è eliminata. A nulla servirà il 3-0 successivo alla Svizzera. Il Cile arriverà fino alle semifinali, dove sarà sconfitto dal grande Brasile (4-2), ma si aggiudicherà il terzo posto sconfiggendo la Jugoslavia 1-0 nella «finalina». Gli azzurri torneranno a casa squassati dalle polemiche. Contro l'arbitro Aston. Contro i giocatori espulsi, fragili emotivamente e non solo: di Ferrini Brera scrive che «sciocco, sicuramente drogato oltre il lecito (...) esce piangendo: insisto, in anormali condizioni psichiche. Anzi psicoaminiche». Contro l'improbabile duo che conduce la nazionale (Mazza presidente della Spal e notorio talent-scout; Ferrari onesto tecnico federale asservito al carisma del primo), che secondo molti si faceva fare la formazione da un paio di influenti giornalisti (tra questi ancora Brera) e che aveva lasciato in tribuna nella partita decisiva Rivera, Bulgarelli, Losi e Sormani. Il quale avrebbe dovuto giocare, ma era stato scartato per la scenata di Altafini, che nel pranzo prima della partita si era messo a fare dei saltelli spavaldi per mostrare quanto fosse in forma, impressionando Mazza e Ferrari.
L'unica consolazione: gli italiani non vedono in diretta tanto scandalo. Le partite di quel mondiale antipodico e presatellitare vengono infatti trasmesse due giorni dopo, al termine di viaggio interminabile delle pizze.
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