Le trecce le ha tagliate con l'inizio del nuovo Millennio, per aprire al futuro più che per chiudere con il passato: «E non perché stavo diventando calvo. Vedi? Ho ancora tutti i miei capelli...». Il sorriso invece è sempre quello di quand'era l'Uragano della Antille, registrato all'anagrafe come Ruud Dil, il cognome della mamma, cinquantacinque anni e la stessa voglia di vivere addosso. Se Maradona era Napoli anche morfologicamente, una ragazzo dei Quartieri spagnoli, del Vomero, di Forcella, nato per caso alla periferia di Buenos Aires, il genio che trasforma il limite in differenza, Gullit era il Diavolo in persona, la personificazione del Milan, il vendicatore con i baffi da Zorro, e la criniera del Corsaro nero tornato sulla terra per vendicarsi del destino. Segnava il confine anche fisico, carnale, pieno di vita tra il Milan depresso degli anni delle due retrocessioni, degli stranieri a basso costo, della bancarotta schivata per grazia ricevuta con quella gioiosa macchina da guerra che veniva dal futuro perché niente fosse più come prima. Gli bastavano due falcate ed era già dove gli altri non erano più, era la fantasia sposata alla potenza, qualcosa che non s'era mai visto. Il vento di un'epoca che prometteva felicità. Più di Van Basten, che era il gioiello della corona, più di Baresi, che era il padrone di casa, più di Maldini che era ancora Paolo, Gullit è stato il simbolo del riscatto, il Montecristo rasta, il Milan che tornava Milan. Ma non solo questo.
Il Tulipano nero, il «cervo che esce di foresta», come lo definì Boskov, era la faccia di un campionato che stava diventando il più bello del mondo, Maradona, Matthäus, Van Basten, e poi Baggio e Mancini; di un calcio che stava diventando altro; di un'Italia felice, dove non c'erano più le Brigate rosse e non c'era ancora Tangentopoli, o meglio c'era ma sottobanco e la Milano era da bere, la Milano dell'«è qui la festa?». Il muro di Berlino stava crollando, l'apartheid stava finendo, c'era un mondo nuovo da esplorare, la libertà soffiava come un vento. E lui che era il Bolt del calcio, reggae e Mandela, l'entusiasmo, la risata, la felicità era fisicamente il sole di un'epoca nuova, sembra impossibile abbia prodotto invece i tempi spaventati e rancorosi di oggi. «Ho fatto anche il cantante reggae ma ero stonato. Ma ero convinto di farlo e tutti mi dicevano bravo. La convinzione è tutto». Forse la chiave è lì. Si racconta a tutto campo come quando giocava: «Una volta era molto più difficile giocare, non eri protetto dagli arbitri come adesso, ti menavano come fabbri. Vincere in Italia era quasi più difficile che vincere in Europa perché i migliori stavano qui. Però il catenaccio mi ha migliorato». Ha scritto un libro che è quasi un trattato di filosofia: «Non guardare la palla», edizioni Piemme. «Perché il pericolo spesso non è mai chi ha la palla ma chi ti sta arrivando alla spalle per riceverla». Vale anche fuori dal campo. «Il calcio come la vita non è giusto: non sempre vince chi merita ed è per questo che il calcio ha successo. Tutto può succedere. Mi fanno ridere quelli che dicono abbiamo avuto il 60% di possesso palla e abbiamo perso...»
É stato un'avanguardia illuminista anche nelle passioni civili, ha dedicato il Pallone d'oro a Mandela quand'era in carcere: «Anni dopo mi disse: adesso che sono presidente ho tanti amici ma quando ero in prigione tu eri uno dei pochi amici che avevo». Non è stata sempre facile nemmeno per lui la vita, il ginocchio di cristallo, il fallimento al Chelsea, la guerra per i figli con la prima moglie, la depressione curata con l'ipnosi, l'esperienza in Cecenia con il presidente Kadirov come proprietario che non deve essere un bel vivere.
Adesso le trecce le ha solo se mette il cappellino che indossavano i suoi tifosi ai tempi della Gullitmania, ma fa niente: «Devi vivere la vita, fare il meglio che puoi». Per il resto, come diceva Platini, il calcio piace perché non ha nessuna legge e nessuna verità. Come gli uomini del resto.
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