Dai pugni chiusi ai saluti romani: quando il calciatore è politico

Tra gli aspetti meno conosciuti del mondo del calcio, spicca certamente il rapporto tra calciatori e politica. Nella storia, sono stati pochi i giocatori a dichiarare il proprio credo politico. Tra destra e sinistra, ecco le storie di alcuni di loro

Dai pugni chiusi ai saluti romani: quando il calciatore è politico

Panpoliticismo. È la teoria per cui le istanze della politica prevalgono nella vita e nei rapporti che regolano una società complessa. Anche nel calcio. Basta spostare occhi e orecchie dal campo alle curve degli stadi per vedere e sentire manifestazioni di stampo politico, di destra e sinistra. È una cosa normale, da quando il calcio è diventato un mondo adulto dove "si sbaglia da professionisti", citando Paolo Conte. E a sbagliare sono soprattutto i calciatori, che secondo la vulgata comune a tutto sono interessati fuorché alla politica. Roba noiosa, per gente che ha studiato e non sa godersi la vita. Ma è davvero così? Non proprio. Soprattutto in passato, quando il conflitto ideologico tra comunisti e anticomunisti rendeva necessario schierarsi. A costo di perdere il sostegno dei propri tifosi.

Sono molte le storie interessanti di calciatori che non hanno fatto mistero delle loro idee politiche. Già ai tempi del fascismo, l'epoca in cui il calcio italiano è passato dal dilettantismo al professionismo, c'erano squadre divise dai colori e dalle idee politiche. Poi, nel dopoguerra, l'escalation che avrebbe portato a un paio di storiche rivalità: negli anni Settanta, quella tra Paolo Sollier e Giorgio Chinaglia. Negli anni Duemila, invece, quella tra Cristiano Lucarelli e Paolo Di Canio. Si parlerà di loro, e di molti altri.

In principio furono Dino Fiorini e Bruno Neri

Gli anni Trenta furono il decennio decisivo per la trasformazione del calcio da gioco a business. Merito soprattutto di due persone: Giovanni Agnelli e Benito Mussolini. Il primo, senatore e fondatore della Fiat, trasformò una società di secondo livello nel più importante club del Paese. La politica di Agnelli era molto semplice: spendere per avere i giocatori migliori e portare allo stadio sempre più tifosi. Obiettivo presto raggiunto, con i cinque scudetti vinti dalla Juventus tra il 1931 e il 1935. Il secondo, Mussolini, fu pioniere nell'intuire le potenzialità del calcio come strumento di costruzione del consenso. Fu grazie al fascismo che l'Italia si dotò in pochi anni di impianti moderni che ancora oggi ospitano partite di Serie A, come il Dall'Ara di Bologna e il Franchi di Firenze. In quegli anni, il fascismo era ramificato in ogni angolo del Paese. Ma qualche sacca di antifascismo resisteva ancora.

Nella società. E quindi nel calcio, che della società è una delle componenti più rappresentative. Il pensiero degli appassionati corre alla Lucchese. Una squadra che oggi naviga nei bassifondi della Serie C. Eppure, nella prima metà degli anni Trenta, la Libertas 1905 realizzò una scalata ai piani nobili del calcio italiano grazie a un manipolo di nemici dichiarati del Duce: un allenatore ebreo e cinque calciatori. Il tecnico era ungherese e sarebbe morto con il Grande Torino: si chiamava Erno Erbstein. Mentre i giocatori, in rigoroso ordine alfabetico ideologico, erano gli anarchici Libero Marchini e Gino Callegari, il comunista Bruno Scher, il libertario Aldo Olivieri e il "partigiano" Bruno Neri. Tutti antifascisti, tutti conosciuti per le loro idee politiche. Ma pur sempre calciatori e per questo amati dalle folle. Perseguitarli sarebbe stato un errore. "Meglio chiudere un occhio", la soluzione messa in pratica dal regime. Che poteva contare su due fedelissimi.

E che fedelissimi: Eraldo Monzeglio e Dino Fiorini. Il primo era un elegante terzino, bandiera del Bologna e della nazionale allenata dal Vittorio Pozzo. Del gruppo azzurro che avrebbe vinto i Mondiali '34 e '38, Monzeglio era l'unico dal cuore nero. Mussolini lo sapeva e infatti Eraldo diventò insegnante di tennis personale del Duce, oltre che intimo della sua famiglia. Dino Fiorini, invece, aveva due punti in comune con Monzeglio. Non sapeva giocare a tennis, ma in compenso era il leader della difesa del Bologna. E fascista convinto. Era bello, Dino. Bello e slanciato. "Sembra una statua", scrivevano i giornali sportivi che decantavano le gesta del Bologna "che tutto il mondo tremare fa". Fiorini, durante la Resistenza, avrebbe condiviso lo stesso destino di Bruno Neri, uno degli antifascisti della Lucchese: morto in montagna. Neri per mano dei fascisti, Fiorini dei partigiani.

Paolo Sollier, il trequartista militante

Non c'è niente di male a salutare il pubblico. All'inizio e alla fine di ogni partita, quasi tutti i calciatori rivolgono un gesto, un sorriso, un pollice in su ai propri tifosi. Per ringraziarli, per farli sentire importanti. Tuttavia, negli anni Settanta, c'era un calciatore che aveva preso l'abitudine di salutare la folla alzando il braccio sinistro e stringendo la mano. Pugno chiuso. Come a dire: "Io sono comunista". Di Paolo Sollier, operaio della Fiat di Mirafiori prima di fare il calciatore con le maglie di Pro Vercelli, Perugia e Rimini, si è detto e scritto tutto. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, ma i tifosi non dimenticano la sua militanza a sinistra. Specie i sostenitori laziali, noti per le loro simpatie di destra. Uno di loro ha firmato l'unico commento che compare sotto a un'intervista a Sollier presente su YouTube.

"Quanno crepi bast... comunista demm...?", a cui un tifoso perugino risponde linkando il video con gli highlights di un Perugia-Lazio del 1975, prima vittoria in Serie A della squadra umbra. Una partita come tutte le altre, potrebbe pensare qualcuno. E invece no. Perché il mito di Sollier, il trequartista militante, l'attivista di Avanguardia Operaia noto per la frase "Dov'è scritto che un calciatore non debba avere idee?", nacque proprio durante Lazio-Perugia del 22 febbraio 1976. All'andata era successo di tutto, con pesantissimi scontri tra le due tifoserie. Qualche giorno prima della sfida di ritorno, Il Messaggero uscì in edicola con un'intervista al calciatore ex operaio. Disse: "Domenica ci sarà più gusto a vincere all’Olimpico contro la squadra di Mussolini". Chiaramente fu fischiato e insultato: lui rispose alzando il pugno chiuso. A fine partita, "inevitabili", decine di feriti tra i tifosi perugini.

Giorgio Chinaglia, "È il grido di battaglia"

Nella sua storia la Lazio ha vinto due scudetti. L'ultimo, bellissimo, nel 2000, vinto all'ultima giornata grazie al rovescio della Juventus a Perugia. Il meno recente, straordinario, nel 1974. Erano gli anni di piombo, con l'Italia devastata dal terrorismo, rosso e nero. Anche lo spogliatoio laziale era spaccato. C'erano due clan: uno capeggiato da Luigi Martini e Luciano Re Cecconi, l'altro dal capitano Giuseppe "Pino" Wilson e da un ragazzone alto, capelli lunghi e temperamento ribelle: "Long John" Giorgio Chinaglia. Era un bomber, Chinaglia. L'anno dello scudetto mise a segno 24 gol, un'enormità per il calcio prudente di allora. Ma non sparava solo il pallone in rete. Come molti suoi compagni di squadra, "Long John" andava pazzo per le armi da fuoco. E non si separava mai dal suo Winchester, un fucile che lo aiutava a sfidare il tedio dei ritiri puntando e sparando alle lampadine.

"Giorgio Chinaglia, è il grido di battaglia" il coro che risuonava all'Olimpico ogni 15 giorni, quando sul terreno di gioco correvano i ragazzi di Maestrelli e sulle gradinate cantavano e facevano gruppo i tifosi laziali. Tempi mitici, incastonati nella storia e raccontati in modo superbo da Stefano Greco nel suo libro "Faccetta biancoceleste". Quella Lazio era un perenne bubbone pronto a scoppiare, una guerra a cui bastava una scintilla per esplodere all'improvviso. E le pistole non mancavano. Tra le mani dei giocatori passava di tutto: berette, carabine, persino un fucile d'assalto M16. Ogni oggetto era un potenziale bersaglio: barattoli, lampadine, pali del telefono, lampioni e segnali stradali. Ma a volte braccia e gambe erano più pericolose dei revolver. Come nella partitella del venerdì: colpi proibiti, tackle assassini, calci volanti e pugni in faccia. La domenica, però, Chinaglia e gli altri diventavano amici. O almeno compagni di squadra, anzi, camerati. Pronti a sacrificarsi per due ideali comuni. Da una parte lo scudetto. Dall'altra, il Movimento Sociale Italiano.

Cristiano Lucarelli, "Tenetevi il miliardo"

Oggi Livorno è amministrata dai 5 Stelle, unico incidente di percorso di una città la cui storia è intrecciata in modo indissolubile con quella del Partito Comunista Italiano, che qui nacque nel 1921. La tifoseria livornese è tra le più schierate a sinistra del panorama calcistico nazionale. Scontato che ad assorbire le idee degli ultras labronici, le ex Bal, sia stato anche il calciatore livornese per antonomasia: Cristiano Lucarelli. Nel 1997 Lucarelli era ancora e solo una grande promessa del calcio italiano. Ma il 27 marzo la sua vita cambiò. Bastò un gol, un semplice gol segnato con l'Italia Under-21 contro i pari età della Moldavia per riportare in auge il rapporto tra calcio e politica. Più che il gol, galeotta fu l'esultanza con la sottomaglia bianca mostrata alla telecamera. Niente di male, se sopra la canottiera non fosse spuntato il faccione di Che Guevara, idolo indiscusso dei comunisti italiani.

"Non avrei mai pensato che quel piccolo gesto creasse tanta confusione...", il suo primo commento dopo il caos esploso in Italia. Da quel giorno, gli è rimasta appiccicata addosso l'etichetta di comunista. Che lui non ha mai rinnegato. "Essere comunisti, nel calcio, non è un vantaggio. E per me di certo non lo è stato", avrebbe detto qualche anno dopo Lucarelli in un'intervista a So Foot. Figlio di un portuale, ha fatto parlare di sé per altri motivi non strettamente politici. Prima la decisione di rinunciare a un sacco di soldi per giocare con la maglia della sua città: "Tenetevi il miliardo", titolo della sua fortunata autobiografia. Poi l'esultanza in cui mimava un rapporto sessuale con la maglia del Livorno, "La mia maglia, casa mia". Infine il salvataggio in extremis del Corriere di Livorno, poi fallito definitivamente - secondo il Fatto Quotidiano - per colpa dello stesso Lucarelli "che non pagava gli arretrati".

Paolo Di Canio, "fascista ma non razzista"

Negli stessi anni in cui Lucarelli professava la sua fede comunista, l'altra faccia della medaglia era Paolo Di Canio. Romano e laziale, debuttò in Serie A con la maglia biancoceleste prima di girare l'Italia e l'Europa. Tenendosi per sé le sue idee politiche e preferendo conquistare le prime pagine dei giornali sportivi per un gesto di fair-play durante la sua esperienza al West Ham. Ma pochi mesi dopo il suo ritorno in patria, nel 2005, Di Canio inciampò all'Olimpico in un gesto destinato a fare il giro del mondo. Sostituito durante il match con la Juventus, rivolse alla curva laziale che lo invocava un tesissimo saluto romano. La squalifica decisa dal giudice sportivo fu il meno. Da quel giorno, "Paolino" sarebbe finito nel tritacarne mediatico dell'eterna contrapposizione tutta italiana tra destra e sinistra, spettacolarizzata dalle Iene con la celebre intervista doppia insieme a Lucarelli.

Schierarsi può costare tanto. Di Canio lo ha capito nel 2017, quando le telecamere di Sky hanno inquadrato il suo tatuaggio con la scritta "Dux". Anche in quel caso polemiche e squalifica. Non dal campo, ma dalla tv a pagamento. "Abbiamo fatto un errore, ci scusiamo con tutti quelli a cui abbiamo urtato la sensibilità", il loro messaggio di scuse. Di Canio, dal canto suo, si è visto crollare il mondo addosso. A Sky aveva saputo conquistarsi la stima del pubblico, anche quello di sinistra, per le sue opinioni sempre pacate e competenti, soprattutto sul calcio inglese di cui è da sempre grande appassionato. "Non sono razzista: i miei tatuaggi mostrano i miei errori. Se sono fascista? Ho sempre spiegato come la penso, non è un mistero. Ma se mi chiede delle leggi razziali, dell'antisemitismo e dell'appoggio al nazismo, sono cose che mi fanno ribrezzo", le affrettate scuse di "Paolino" Di Canio.

Libretti rossi e busti del Duce

Concludiamo questa carrellata di ritratti con altri esempi di calciatori "politici". Non solo italiani. Il primo a venire in mente è il tedesco Paul Breitner. Tedesco-cinese, verrebbe da dire. Perché Breitner, fin da giovanissimo, fu convinto sostenitore di Mao Tse-tung. Un comunista doc che però non si fece troppi problemi a lasciare il Bayern Monaco per il fascistissimo Real Madrid, quando in Spagna c'era ancora la dittatura franchista. Poi il cileno Carlos Caszely, noto per la sua opposizione al generale Pinochet. E Diego Armando Maradona, che non ha mai nascosto la sua ammirazione per Fidel Castro.

Ma non mancano i calciatori di destra. Negli ultimi 15 anni, si è parlato molto delle simpatie destrorse - tra gli altri - di Gianluigi Buffon, Fabio Cannavaro e Christian Abbiati. L'ex portiere del Milan, nel 2008, rivelò di apprezzare del fascismo "ideali come la patria e i valori cattolici", attirandosi le critiche di una parte della stampa. Mentre Alberto Aquilani, ex Roma e Fiorentina, ha raccontato in passato di fare la collezione dei busti del Duce che gli regala lo zio. Andando più in là con gli anni, è noto che sia di destra l'ex portiere juventino Stefano Tacconi, candidato di Alleanza Nazionale alle elezioni europee del 1999. E oggi? È sempre più difficile trovare un giovane interessato alla politica, figuriamoci un calciatore. Uno dei pochi a esporsi è Claudio Marchisio. L'ex centrocampista di Juventus e Nazionale interviene spesso sulle tematiche relative all'immigrazione. Pur non dichiarando apertamente le sue idee politiche, Marchisio fa intuire di essere un progressista.

Piaccia o non piaccia, finalmente un calciatore che si schiera. Ne avevamo bisogno.

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