«Stavo annegando nell’alcol, ora darò lezioni di comicità»

«Sei andata via Alina? E chi se ne frega!». Il ragazzo resta come un fesso sulla spiaggia, si toglie i Rayban d’ordinanza e con spiccato accento milanese butta lì la frase che ormai è un cult. È una scena di Sapore di mare 2 e lui è Mauro Di Francesco, per tutti Maurino, colonna del cabaret e delle pellicole pre-cinepanettone con Abatantuono, Calà&Co. Maurino ha sempre affrontato gli schiaffi della vita con uno sberleffo o una risata; così è diventato famoso al Derby di Milano, nelle sale e in tv, così ha combattuto l’alcolismo e il recente trapianto di fegato. Allo stesso modo s’è scoperto scrittore con i brillanti racconti semi-autobiografici di La logica del paradosso (Viator, già in vista la seconda edizione) e dopo un periodo buio ha un sacco di idee e qualche sassolino nelle scarpe da togliersi: «Il fenomeno Checco Zalone non lo capisco; è bravo ma lo paragonano a un Troisi o a un Benigni, invece fa le cose in pugliese che faceva Banfi un secolo fa».
Un po’ d’invidia?
«Ma và! Ho fatto 61 film, I fichissimi ad esempio è costato 800 milioni e ha incassato 23 miliardi. Umberto Simonetta - grande autore e critico teatrale del Giornale - ha scritto tante cose per me e poi i nostri film erano ancora commedie all’italiana, i cinepanettoni sono più volgari e pieni di parolacce, anche se De Sica è un grande».
Però Teocoli e gli altri sono sempre in giro e lei è sparito.
«Se penso che con Silvio Berlusconi ho fatto il primo programma di Telemilano... S’intitolava Gol, un quiz a premi sul calcio e vallette erano Barbara D’Urso e Patricia Pilchard. Poi non so cosa è successo... Con la proprietà sono di famiglia, ma oggi ci sono ostacoli che non capisco e che mi impediscono di lavorare a Mediaset. Faccio proposte ma nessuno risponde».
Quali proposte?
«Ne ho parecchie, una si chiama Scuola serale. Coi vecchi compagni di cabaret potremmo dare lezioni di storia, geografia, filosofia. Sarebbe un successo, ci scommetto».
Non ha qualche buono sponsor?
«Sì, ma ci sono problemi di comunicazione. Non dimentico che il mio padrino è stato Ugo Tognazzi. Mi ha insegnato molto e quando lavoravamo in Scusa se è poco veniva a prendermi personalmente con una Renault Fuego della produzione».
Comunque lei ne ha fatte di tutti i colori...
«Io gioco nel lavoro e nella vita. Sono uno di quelli che in macchina mette il sedere fuori dal finestrino per provocare. Ho iniziato a lavorare a 9 anni: Carosello, TicTac, al Piccolo con Strehler recitavo ma inchiodavo al palcoscenico le scarpe di Corrado Pani che così doveva andare in scena scalzo».
Il divertimento prima di tutto.
«È questo che ha unito me, Faletti, Teocoli, Boldi, Porcaro. Approdammo al mitico Derby prendendo il posto di Cochi e Renato, Paolo Villaggio&Co».
Com’era quella Milano?
«Prima della Milano da bere era una città ruspante. Al Derby accanto ai vip c’erano Turatello, Epaminonda e il picchiatore sanbabilino Mammarosa, con il quale ho organizzato uno scherzo. Giocavamo a braccio di ferro raccogliendo scommesse contro di me, ma ci mettevamo d’accordo e lui mi lasciava vincere».
A chi è più legato, di quel gruppo?
«Faletti era un santo, non beveva, non combinava casini. E poi Diego è ancora come un fratello. Racconto una storia che lui smentirà. Lui faceva il tecnico delle luci per i Gatti di Vicolo Miracoli. Una sera invece di fargli luce s’è imboscato a baciare una ragazza, così lo cacciarono. Era davvero giù, così gli dissi: “Fregatene, sali sul palco con me e vedrai che qualcosa succede”. Cominciò a fare il “terrunciello”. La prima sera aveva due minuti nel mio set, dopo un mese lui faceva 40 minuti e io mezz’ora».
Se comincia a raccontare aneddoti non la smette più...
«Certo. Una volta in Sardegna io e Diego pensavamo che Teocoli si fosse chiuso in camera a fumare da solo. Così provammo a buttar giù la porta; io diedi una spallata e mi feci un male boia; Diego diede una botta che scardinò la porta e cadde nella stanza. In quel momento arrivò da fuori Teo che disse: “Avete fumato senza di me eh?”. Un’altra volta io, Diego, Calà e Smaila ci siamo fermati in un night sul Lago di Garda e abbiamo speso un milione e mezzo in toast e bevande. Dovevamo andare in un hotel a un chilometro circa. Calà guidava, noi ci siamo addormentati: dopo tre ore eravamo ancora per strada».
Divertente, ma lei s’è rovinato con l’alcol.
«Eh, fuori tutte le notti, ho cominciato a bere a 10 anni e ho smesso a 55. Faccio un appello a tutti i ragazzi: lasciate perdere, l’alcol è peggio della droga. Non riducetevi come me, sono un miracolato dopo il trapianto di fegato. Ora voglio fare il testimonial dei donatori di organi»
È convalescente ma non si ferma: ha scritto un bel libro.
«Sono soddisfatto delle vendite. È una serie di racconti autobiografici un po’ seri e un po’ comici. Ora sto lavorando a un romanzo polemico, La fabbrica del ghiaccio».


Come si definisce?
«Un pazzo».
Anche oggi?
«Meno pazzo, penso sempre a quello che dico e non dico mai quello che penso».
Un sogno?
«Non sentirmi più chiedere “Ma che fine hai fatto?”. La mia vita è scrivere e recitare».

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