Storia del capitano Karim l'avventuriero italiano in Libia

Si chiama Giulio Lolli ed è latitante per reati fiscali e truffa. Convertito all'islam e fuggito dal carcere di Gheddafi, ora combatte per il governo islamico di Tripoli

Giulio Lolli, il "capitano Karim"
Giulio Lolli, il "capitano Karim"

L'ultimo avventuriero è la definizione che calza a pennello a Giulio Lolli, 50 anni, l'unico italiano rimasto a Tripoli. Venditore di successo di panfili in patria, truffatore, latitante, prigioniero di Gheddafi, rivoluzionario e adesso capitano della marina libica del governo islamista nella capitale, che la comunità internazionale non riconosce. «Con il mio yacht salvo i feriti più gravi, sia combattenti sia civili, da Bengasi, trasformata in un ammasso di ruderi come Sarajevo. E porto medicinali, aiuti o generi di prima necessità» spiega via Skype a il Giornale da Tripoli il «capitano Karim», nome che si è dato dopo la conversione all'islam. «Ero un cristiano secolare prima e sono diventato un musulmano molto secolare adesso. Non vado a pregare in moschea. Però mi piace che il Corano consideri molto la figura di Gesù. Purtroppo oggi va per la maggiore l'islam pericoloso e fondamentalista» spiega Lolli.

La sua incredibile storia si racconta come un romanzo. Non è un caso che da piccolo «mio padre mi avesse regalato una edizione speciale della Ballata del mare salato con le avventure di Corto Maltese imparata quasi a memoria». Da bordo del suo amato Leon, lo yacht che ha usato per salpare le ancore dall'Italia temendo di venir arrestato, cinque anni fa, ci manda delle foto in giaccone mimetico, occhi azzurri, barbetta e perfetta forma fisica. Nel 2010 trova rifugio in Tunisia, ma un mandato di cattura internazionale per bancarotta fraudolenta e corruzione, oltre allo scoppio della primavera araba, lo consigliano di puntare la prua verso il largo per poi approdare nella «sicura» Tripoli del colonnello Gheddafi. L'Interpol libica lo arresta nel lussuoso hotel Rixos per estradarlo, ma scoppia la rivolta armata. Lolli non solo resta sepolto nelle sordide prigioni (...)(...) del Colonnello, ma diventerà un rivoluzionario con fughe, battaglie e avventure.Il film, però, va riavvolto dalla fine.

Oggi il suo yacht è stato ribattezzato «Bukha» in onore del più famoso miliziano morto combattendo contro il generale Khalifa Haftar. L'uomo forte che sostiene il governo di Tobruk appoggiato dalla comunità internazionale e bombarda quello di Tripoli trasformando Bengasi in una fumante prima linea.«I towar (rivoluzionari ndr) della capitale avevano bisogno di me, come capitano di yacht - racconta Lolli -. Così ho cominciato a compiere missioni via mare per portare medicinali, generi di prima necessità, batterie per un minimo di elettricità a Bengasi assediata». Niente forniture militari giura Lolli, ma aggiunge «che siamo armati fino ai denti per difenderci. Ci avviciniamo alla costa di notte, ma due mesi fa hanno individuato lo yacht da terra sparando raffiche di mitragliatrice pesante. I traccianti rimbalzavano sulle onde». La navigazione dura 8-12 ore. Nel viaggio di ritorno l'ultimo avventuriero imbarca i feriti, che vengono trasportati a Misurata o Tripoli. I più gravi proseguono verso la Turchia. «Uno dei combattenti moribondo non lo dimenticherò - spiega Lolli -, era spappolato dalle schegge di un Rpg (bazooka russo ndr). Una poltiglia di sangue e brandelli di mimetica, ma trasporto anche civili come una donna completamente velata dalla testa ai piedi che stava per partorire». Lolli ha già salvato circa 150 feriti e si è spinto fino a Derna, dove i barbuti locali legati ad Al Qaida combattono ferocemente contro lo Stato islamico. «Tutti mi chiamano il capitano che salva i feriti ed il mio yacht è ormeggiato nel porto militare di Al Wanassi, dove cerco di istruire i libici ai rudimenti della navigazione. Sono bravissimi a trovare la direzione della Mecca, ma scarsi su rotta e punto nave», sostiene Lolli.

A Tripoli giura di trovarsi benissimo e che le notizie sul caos in stile somalo sono infondate. «È venuta a trovarmi anche la mamma, che non è più una giovincella - fa notare Lolli -. Quando è scoppiata la battaglia per l'aeroporto (nel 2014 ndr) prendevo il caffè all'hotel Corinthia, nel centro di Tripoli, con i lampi delle esplosioni dell'artiglieria che illuminavano la notte verso lo scalo». E nella capitale l'italiano incrocia Weidan, che vuol dire «dal profondo del cuore». Una giovane e bella ragazza che porta l'hijab, il velo islamico non integrale ed il prossimo anno dovrebbe diventare sua moglie. «L'ho incontrata in uno dei tanti caffè di Tripoli, che rispetto a Milano hanno l'unica differenza di non servire alcolici», sottolinea Lolli.Con gli scafisti non vuole avere a che fare «perché mi fanno schifo, ma invece di mandare degli incursori basterebbe comprarli. Con quello che spendiamo in un giorno di gasolio con la flotta schierata davanti alle coste libiche risolviamo il problema di Zwhara», uno degli hub dei barconi zeppi di migranti diretti in Italia.Nel 2013 Lolli viene pure rapito da una banda di miliziani e tenuto in ostaggio per tre mesi. «Prima hanno tirato fuori le storie giudiziarie italiane. Poi mi accusavano di essere un agente della Cia o dei servizi italiani - spiega Lolli -. Alla fine volevano un riscatto di 10 milioni di dollari. Mi sono messo a ridere». Allora un capoccia della banda gli fa scrivere una lettera alla famiglia per chiedere appena 100mila euro. «Mi spostavano incappucciato e ad un certo punto sono stato portato in una specie di magazzino con un'inferriata malandata alla finestra. Neppure mi sorvegliavano - racconta Lolli -. Per fuggire ho rotto l'inferriata e poi scavalcato il cancello di un giardino trovandomi in strada. Mi è bastato fermate un taxi ed il rapimento alla libica era finito».

L'ultimo avventuriero non sarebbe mai diventato tale se non fosse stato sbattuto da Gheddafi nella famigerata prigione di Jdeida, a Tripoli, per estradarlo in Italia alla vigilia della rivolta libica. Il 17 febbraio 2011 scoppiano i primi moti a Bengasi contro il Colonnello «e pochi giorni dopo i detenuti organizzano una rivolta - racconta l'ex patron di Rimini yacht -. Le guardie cominciano a sparare ed un disgraziato crolla colpito davanti ai miei occhi. Dopo un rantolo muore». La sommossa fallisce e Lolli viene trasferito nel «buco», una cella di un metro e mezzo per un metro e mezzo, nel carcere di Ayn Zarah a sud est della capitale. «Dormivo in diagonale e la poca luce filtrava da una feritoia dodici metri più in alto - racconta -. Alla mattina mi passavano da sotto la porta di ferro della cella un pezzo di pane e alla sera degli orribili maccheroni. Il gabinetto era alla turca e l'acqua serviva per bere e lavarsi».I secondini lo picchiano e incatenano ai ceppi per dieci giorni, ma all'esterno il regime comincia a scricchiolare. Lolli sente le esplosioni delle prime bombe della Nato: «Tremava tutto. Speravo che me ne arrivasse una in testa per liberarmi o farla finita».

Fra il 20 e 21 agosto, quando i ribelli stanno entrando a Tripoli, le guardie si dileguano. Ed i detenuti scappano. Lolli, seguendo alcuni compagni di cella, si dirige verso dei capannoni vicini simili a quelli dei lager nazisti. «Ci tenevano i politici. Non dimenticherò mai la scena di quando li abbiamo liberati. Non erano esseri umani, ma zombie». Il latitante si unisce ad una colonna di oltre un migliaio di ex prigionieri che marcia su Tripoli partecipando alle ultime fasi dell'assalto a Bab al Azizya, la roccaforte del Colonnello nella capitale. «Ci hanno sparato da alcuni edifici vicini e abbiamo risposto al fuoco facendoli smettere» racconta. Morti, feriti e come ricordo del saccheggio si porta via un orologio con il faccione di Gheddafi. «Non l'avrei mai immaginato, ma sono diventato un rivoluzionario» spiega Lolli, che va orgoglioso del basco con la bandierina della nuova Libia conquistato sul campo. Morto il Colonnello il Paese non rinasce, ma si dilania in una guerra civile con la minacciosa presenza delle bandiere nere.

Lolli nel frattempo patteggia la pena di due anni e mezzo per bancarotta e due anni per corruzione. La Libia rivoluzionaria non l'ha mai estradato ed i suoi processi continuano. Da Tripoli sta preparando un libro e a giorni aprirà un blog con un titolo perfetto: «L'ultimo avventuriero».Fausto Biloslavo

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