«Vàrda che te si tuta sbotonà!». Giunto al terzo mese del suo terzo matrimonio, il dottore (in giurisprudenza) Giuseppe Farina, detto Giussy, il più accanito collezionista di società calcistiche mai apparso sotto la volta celeste (Milan, Vicenza, Padova, Modena, Livorno, Rovigo, Legnago, Valdagno, Schio e Audace San Michele), è ancora invischiatissimo nel miele della luna. «Detesta le scollature e il pareo», lo giustifica la neosposa, l’avvocata Luciana Gaspari, chiudendosi un bottone della camicetta slacciata sul seno prosperoso. «Di’ la verità! L’è abondante sì o no? Ghe n’è par tuti», e invece il maritino geloso lo vuole solo per sé. Sarà una quarta o una quinta, balbetto. «Noialtri bovari, come mi chiama la mia signora, certe cose vogliamo vederle solo di notte. A védarle de giorno, se agitémo...». Non smentisce il giudizio che di lui diede Giampiero Boniperti quando gli chiesero che cosa gli piacesse di più di Farina. «Le sue battute», rispose il presidente della Juve. E che cosa di meno? «Le sue battute». Si compiace: «Ho preso dal mio amico Nereo Rocco».
Giussy Farina - «sarei Giuseppe Antonio, ma siccome era un nome troppo lungo mi chiamavano Giussano, donde il diminutivo» - è nato da proprietari terrieri a Sorio di Gambellara (Vicenza) il 25 luglio 1933. Nel 1956 sposò la contessa Carla Rizzardi, veronese, dalla quale ebbe sei figli. Dopo un quarto di secolo divorziò e a Palafrugell, in Catalogna, si mise con Gabriella Casini, vedova, che gli diede Marisol. Dopo 17 anni lasciò la donna per sposare, sempre in Spagna, l’australiana Dunja Adcock, che aveva sei lustri meno di lui. Dopo otto anni mollò anche questa.
Luciana Gaspari, esperta in diritto del lavoro, è nata a Verona il 29 giugno 1940.Dopo 37 anni di matrimonio rimase vedova dell’avvocato Vittorio Avrese, patrizio della Serenissima che si fregiava del titolo di principe, compagno nella vita e nella professione: oltre a una figlia, hanno avuto insieme anche uno studio legale. Un giovedì dello scorso novembre, precisamente il 27, Giussy e Luciana si sono ritrovati in gran segreto alla Tomba di Giulietta e lì, davanti a un delegato del sindaco, si sono giurati amore eterno. Niente invitati. Solo i due testimoni: per lui, Carlo Bonfante, un ragioniere in pensione di Isola della Scala che è sempre stato il contabile di fiducia di Farina («più fedele d’una moglie »); per lei, una cugina, che però all’ultimo momento non se l’è sentita di firmare («c’è mancato poco che dovessimo noleggiare qualcuno di passaggio, per fortuna alla fine s’è precipitato il compagno di una mia sorella»).
La coppia è appena tornata da un lungo viaggio di nozze in Sudafrica, dove Farina possiede una tenuta di mille ettari che si estende per cinque chilometri lungo l’oceano Indiano, a Port Elizabeth. È lì che riparò per 17 mesi, inseguito dalla giustizia, dopo aver ceduto nel 1986 a Silvio Berlusconi un Milan sull’orlo del fallimento. E adesso dove poteva finire Giussy Farina, dopo una vita passata a inseguire chimere sui campi di gioco, se non nel Museo del giocattolo, la Casa dei sogni istituita dalla Fondazione Gaspari Avrese Onlus sulle Torricelle, l’esclusiva zona collinare che domina Verona? Attratta da un cavallo a dondolo adocchiato trent’anni fa in un negozio d’antiquariato delle Mercerie a Venezia, la gentile consorte ha preso a collezionare balocchi d’epoca - bambole di biscuit, di cartapesta, di legno, di pannolenci, di celluloide, di paglia, ma anche burattini, marionette, trenini - e oggi si ritrova assediata da 15.000 oggetti che spaziano dal Settecento agli Anni 50.
Non contenta, Luciana Gaspari ci ha aggiunto il Bosco magico, 25.000 metri quadrati di ulivi, frassini, gelsi e carpiniche, se lottizzati con spregiudicatezza, potevano fruttarle una cascata di euro. Invece ci ha piazzato nel bel mezzo un teatro all’aperto, ci ha disposto intorno il Paese dei Balocchi, il Viale del Principe azzurro, il Tratturodi Pollicino, lo Stagno del Brutto anatroccolo e via fantasticando, e lo ha messo a disposizione di bambini, famiglie, anziani, scolaresche. Una sera dello scorso giugno, smanettando dalla Spagna col telecomando, Farina ha visto un servizio di Raisat sulla Casa dei sogni. «Lei mostrava la solita scollatura. Mi sono detto: toh,ma quele no’ xe le téte de la Luciana?». Il giorno dopo era a Verona.
Attrazione fatale.
«Lei dice che la corteggiavo
già prima del suo matrimonio,
nel 1965, quando era in
studio con l’avvocato Dario
Donella. Ma in vita mia io non
ho corteggiato nessuno. Sono
sempre stato corteggiato».
Quante amanti?
«Ah, bisogna che te ghe domandi
a loro! Tutti a consigliarmi:
compra il Milan, vedrai
quante donne ti cadranno
ai piedi. Mai conquistata
una». (Lei: «Era bello. Aveva
gli occhi di un verde sfacciato e al tempo stesso
timido. Suscitava
l’istinto materno»).
Fatto sta che s’è precipitato
dalla Spagna.
«L’ho subito portata in gita
sui monti Lessini. Lei è convinta
d’essere Esther Williams. Vàrda, cara, che
te si più tarchiata, l’ho calmata. S’è offesa: “Che
vuol dire tarchiata?”. Che vuol dire, che vuol dire...
Insomma,tu che fai il giornalista diresti tarchiato
di Beckham? Ecco. Allora sai che cos’ha
fatto lei? S’è alzata la gonna e mi ha mostrato le
gambe. Le ho subito scattato una foto».
Fra cinque mesi farà 76 anni. Non ha ancora
raggiunto la pace dei sensi?
«L’ho raggiunta da 20anni, ma le done no’ghe
crede, a loro sembra impossibile, vogliono metterci
il naso. Dal giorno del matrimonio siamo
sempre stati insieme. Adesso partiamo per Monterotondo
Marittimo, abbiamo un po’ di terra in
Toscana. Poi voglio portarla in Spagna, a Rossell,
dove abito. È un paesino di 1.200 abitanti,
vicino al delta dell’Ebro, a 500 metri sul livello
del mare. Si chiama così perché al tramonto tutt’intorno
si fa nero mentre Rossell resta rosso
sul cocuzzolo».
Perché non andate a vivere stabilmente in Sudafrica
o in Spagna?
«Io non avrei problemi, sono un cittadino del
mondo. Mi basta avere il fucile da caccia, i fiori, le
galline e la mia collezione filatelica di annulli del
Lombardo Veneto. Ma lei ha le radici a Verona».
Be’, qui può consolarsi col Bosco magico.
«Per essere un bosco è un bel bosco. Ma è pieno
di cose che non c’entrano niente col bosco.
Ci sono stato due volte, alla terza ho detto a Luciana:
manca solo la scritta “Manicomio” sull’ingresso.
Noialtri bovari nel verde ghe metémo le
bestie a pascolar».
Vabbè, può rifugiarsi nella Casa dei sogni.
«Dal Museo del giocattolo sono uscito dopo
appena un quarto d’ora. Avevo qualche sintomo
di disturbi mentali». (Lei: «Ma se mi avevi
dettoche èunameraviglia! Mentitore»). «Lì dentro
le mosche non sanno neppure dove posarsi,
tanta roba c’è esposta. Continuano a volare, poverette,
e poi cadono a terra morte». (Lei: «E pensare
che ricevo lettere commoventi e lasciti di
visitatori anziani che qui sono ritornati fanciulli»).
Lei, Farina, come giocava da bambino?
«Ah, gh’era poco da zugàr co’ la guèra. Giocavo
a bala palo, una versione povera del baseball,
e a ciupascòndere, il nascondino. Poi presi
la passione per il calcio. Diventai terzino sinistro
della squadra parrocchiale di San Giorgio
inBraida. Il mio record fu cinque gol su punizione
di prima contro l’Audace. Quando smisi col
calcio giocato, cominciai ad andare a vedere il
Verona Hellas di Pellicari, Bellesini e Bizzotto,
con Manzini in porta. Finché nel 1960 divenni
vicepresidente del Vicenza».
Ci ha più guadagnato o più rimesso, con quest’hobby?
«Ci ho sempre rimesso, checché se ne dica.
Col Milan, poi, gnàn parlarghene! Ma l’ho sempre
fatto per passione, mai per soldi. Il calcio mi
ha dato moltissimo: conoscenze umane, viaggi,
un modo di vivere diverso da quello del bovaro,
come dice l’avvocatessa».
E quanti denari ci ha smenato?
«Mai fatto il conto. Avevo un’azienda agricola
di 300 ettari in Toscana, la Valmora, alla quale
ero affezionatissimo. L’avevo comprata a Massa
Marittima negli Anni 70 per 550 milioni di lire.
Siccome era dentro la finanziaria del Milan, insieme con tante
altre proprietà, l’ho persa. Be’, è
stata messa in vendita a 20 milioni di euro. E
stiamo parlando di una piccola parte del patrimonio.
Le dico solo questo: quandos’è chiusa la
procedura fallimentare della Fin Milan, che ha
dato soldi a tutti, rimanevano ancora 150 milioni
di lire per me».
L’affare migliore che ha combinato nel calcio?
«Quello di ritirarmi».
E il peggiore?
«Quello di entrarci».
Fu doloroso cedere il Milan a Berlusconi?
«Non l’ho ceduto. Se l’è preso».
Mi perdoni, ma «La Repubblica
», che certo non è mai stata
tenera col Cavaliere, il 19
dicembre 1985 titolò: «Berlusconi
deciso a comprare. Farina
risponde: “Sono pronto”». Era pronto a farselo
prendere?
«Non ho mai rifiutato la trattativa.
Sono andato via perché
avevo degli impegni irrinunciabili
in Sudafrica. Non
sono scappato. Sapevo di
non poter rimanere presidente
a vita. Mi sembrava normale
che il Milan non restasse a
un vicentino, era giusto che
lo prendesse un imprenditore
milanese. Prima di partire
sono andato a trovare Berlusconi
ad Arcore. Prendilo tu,
gli ho detto. “Ti invidio quella bella testa di capelli
neri che hai”, mi ha risposto».
Resta il fatto che Berlusconi si accollò debiti
per 13 miliardi di lire. Al valore di oggi fanno 15
milioni e mezzo di euro.
«Ma io gli ho lasciato il Milan con tutti i giocatori:
Baresi, Costacurta, Tassotti, Albertini, Maldini...
Gente che dopo 23 anni ancora gioca, che
ha vinto tutto quello che c’era da vincere. Le
pare poco?».
Allora com’è che lei fu arrestato?
«Per un reato, il falso in bilancio, che oggi non
esiste nemmeno più. Mancato versamento di
quattro mesi d’Irpef, quando il Cagliari non
l’aveva mai pagata e la Lazio l’aveva evasa per
anni. Mia sorella mi disse: “Se non fai tre giorni
di galera, in Italia non sei nessuno”. Così rientrai
dal Sudafrica e mi presentai alla frontiera di
Chiasso. Il mio avvocato s’era accordato col pm
Ilio Poppa perché m’interrogasse e mi rilasciasse
subito. Invece a tarda sera del venerdì non
aveva ancora finito. “Riprendiamo lunedì”, e mi
lasciò in guardina nella caserma delle Fiamme
gialle. Un finanziere cercava di consolarmi: “È
la stessa stanza dove abbiamo tenuto anche Angelo
Rizzoli”. Ho cominciato lo sciopero della
fame. Due giorni. I g’ha ciapà paura, temevano
che morissi. Il lunedì, prima di liberarmi, mi
hanno portato in mensa: g’ho fato ’na magnàda
che me la ricordo ancora».
Vedere Berlusconi al governo che effetto le fa?
«Nonostante tutto, sono talmente cretino da
votarlo, pensi un po’. Come Giussy Farina non
l’avrei mai fatto. Ma come italiano non vedo in
giro di meglio».
Politicamente da che parte tirava, prima?
«Non mi sono mai interessato di politica. Altrimenti
sarei ancora presidente del Milan».
Da presidente delle squadre di calcio era specializzato nel
resuscitare campioni ormai decotti,
tipo Sormani e Cinesinho. Come faceva?
«E il brasiliano Vinicio dove me lo mette? Entravano in un ambiente,
il Vicenza, fraterno. Oggi
il calcio è un’altra cosa. Come la vita. Tutto è
diventato più meccanico, meno umano. Un tempo
il direttore di banca ti guardava negli occhi,
oggi vuol leggere la tua denuncia dei redditi».
Il più grande giocatore del passato?
«Franco Baresi. Perché è un grand’uomo».
Paolo Rossi, credevo che mi rispondesse. Pablito
mi ha detto che lei è stato il suo miglior presidente,
«un vero paròn che mi ha voluto bene».
«Infatti ci telefoniamo ancora».
Rossi fu l’inizio della sua rovina economica,
quando nel 1978 il Vicenza arrivò al braccio di
ferro con la Juve sulla comproprietà e lei scrisse
quella cifra astronomica, 2.612 milioni, scoprendo
che Boniperti s’era fermato a 875.
«Gianni Agnelli mi convocò a Torino: “Voglio
Rossi”. Io l’avevo preso dalla Juve, che l’aveva
prestato al Como non sapendo che farsene. Capisco
che la sua platea naturale è questa, me lo
lasciunaltro anno e poi glielo restituisco, risposi.
“No, no. Lo voglio adesso”. Allora andiamo
alle buste, e girai i tacchi. Sa che cosa accadde
quell’anno? Il Vicenza fu mandato in serie B.
Giusto per farle capire come funziona il calcio».
Ma come poteva pensare, lei, un contadino,
d’avere la meglio sull’Avvocato?
«Sul re d’Italia. Fu un errore di presunzione.
Ma non per quel che riguardava il valore di Rossi,
come poi i fatti hanno dimostrato».
Il più grande calciatore di oggi?
«Dal punto di vista tecnico Lionel Messi, l’argentino
del Barcellona, non è niente male».
Il più grande allenatore?
«Hector Puricelli. È stato un padre, per me».
Che idea s’è fatto di Calciopoli?
«Non do ragione a Luciano Moggi. Però è un
figlio del sistema. Se vedi che puoi fare una cosa
e nessuno ti dice nulla, perché non farla? Come
la mafia e la camorra: esistono perché lo Stato
permette che esistano».
Per caso ce l’ha con i terroni?
«No».
Però di Corrado Ferlaino, presidente del Napoli,
disse: «Quando tratto con lui sto sempre con le
spalle appoggiate al muro. Non si sa mai».
«Lo dissi perché era furbo, non perché era napoletano».
Francesco, il suo primogenito,
ha dichiarato: «Mio padre
ci aveva dato un’educazione
all’antica, al punto che non
faceva entrare in casa una
parente perché era separata
dal marito. Poi di colpo cambiò.
Lasciò nostra madre per
mettersi con un’amica e quasi pretendeva
dimischiare le
due famiglie. Su tutto, cambiò:
per lui l’onestà non era
più di un metro, ma di 80 centimetri.
Aveva un modo di
giudicare le cose tutto suo». Si riconosce nel ritratto?
«Non mi riconosco totalmente,
ma rispetto le idee. Sono
esigente innanzitutto con
mestesso, e un po’ vendicativo.
Però so trattenermi. Anch’io
potrei raccontare tante cose di mio figlio».
Ha un debole per le ereditiere?
«Non mi pare. Su quattro, soltanto due possono
essere considerate ereditiere e due no. Sono
nella media».
Che cosa non le piace dei salotti?
«Cerco di viverci il meno possibile. Preferisco
le stalle».
Dev’essere stato un inferno, con una moglie contessa. (Ride).
«Questa non è male. Quanti soldi vuole per la battuta? La compro». (441. Continua)
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