La tragedia greca? Ha radici misteriche Parola di Tonelli, il poeta-sciamano

La tragedia greca? Ha radici misteriche Parola di Tonelli, il poeta-sciamano

Chi per le vie di Lerici incontra Angelo Tonelli, tutto può pensare di quell’uomo alto, imponente e atletico, dalla barba folta e dai capelli lunghissimi, gli stivali indossati anche d’estate, il cinturone da pirata, la camicia bianca svolazzante e tutta pizzi, eccetto che sia uno dei massimi grecisti italiani, cui è dovuta l’impresa unica di aver tradotto tutto il teatro greco, ora raccolto per le sue cure in un grandioso volume: Eschilo, Sofocle, Euripide. Tutte le tragedie (Bompiani). In effetti, Tonelli non è solo quello. Grecista per lui, uomo dottissimo ma decisamente antiaccademico, è termine limitativo. Tonelli è un poeta-sciamano. Uno che ha avuto sempre il coraggio di presentarsi come tale, enfatizzando sin dall’aspetto la sua incompatibilità con la poesia e la cultura italiana, affetta da minimalismo materialista, da prudenza, da riluttanza a mettere in gioco le idee estreme. Vive nella Baia di Lerici, che già Shelley chiamava «divina». Lì traduce, scrive poesie, dirige un teatro iniziatico, pratica il suo sciamanesimo, lotta contro la cementificazione della costa, e da lì invia ai potenti lettere accorate in cui chiede di abbandonare la logica del dio Denaro e di accedere a una nuova visione mistica e sapienziale. Le radici della tragedia greca, secondo Tonelli, affondano nello sciamanesimo, questa condizione spirituale che fa da collante tra Oriente e Occidente. E la chiave migliore per leggere Eschilo, Sofocle e Euripide è quella che inscrive la loro opera nella combinazione di arte, sapienza e catarsi, in un lungo e diverso viaggio iniziatico verso la luce passando per il buio cavernoso del male del mondo e delle nostre anime.
Per ognuno dei tre autori che traduce, Tonelli ci offre una chiave di lettura che è di straordinaria dottrina e novità. Eschilo è il più radicale nell’accompagnarci in un viaggio verso l’abisso, il caos, lo spazio sotterraneo che si apre nelle apparenze solari della vita. Dioniso è eccesso: passioni estreme e incontrollabili. In Eschilo il contrasto è anche nel regno del divino: nell’Orestea, Clitemestra (così preferisce chiamare Tonelli la terribile moglie di Agamennone) agisce in nome di divinità arcaiche, pre-elleniche, Oreste invece in nome di Apollo delfico. Ma alla fine la tragedia è per i Greci un rito di iniziazione collettiva, che tende a una catarsi in cui la luce apollinea e la saggezza di Atena possano aver ragione dell’oscurità mai rinnegata dell’essere. Con Sofocle, compare la compassione per la fragilità umana. Per lui, antico sacerdote di Asclepio, dio della medicina, la tragedia è una terapia dell’anima. Saggezza e devozione curano il travaglio dell’esistere. La sua eroina è Antigone, che si sacrifica lottando contro il potere insensibile in nome di leggi non scritte degli dèi e del sentire umano. Il suo eroe Edipo, che Tonelli scrosta da ogni sedimento di interpretazione psicanalitica. Euripide introduce nel rapporto tra gli dei e gli umani il dubbio. L’uomo trova intollerabile il mistero del dolore e della morte. La saggezza diventa il saper gioire della stessa fuggevolezza dell’esistenza: «Chi ha vita felice giorno per giorno/ costui io ritengo beato», si legge nelle Baccanti. Impressionante è la galleria dei personaggi femminili messi in scena, da Medea a Fedra, da Ecuba a Ifigenia, archetipi di diverse dimensioni dell’anima.

Ma la vocazione euripidea a cogliere una nuova sensibilità individuale non si disgiunge mai, per Tonelli, da quell’indole sacra e sapienziale senza la quale non ci sarebbe la tragedia greca. E senza la quale forse lui non si sarebbe messo a tradurla.

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