Il Van Gogh napoletano ha trasformato la follia in arte

Ha messo sulla tela le ossessioni. Ora i collezionisti gli commissionano opere facendosi ritrarre con i suoi «fantasmini»

Il Van Gogh napoletano ha trasformato la follia in arte

Secondo un detto buddista il segreto della felicità dell'uomo sta nella capacità di «trasformare il veleno in medicina», ovvero di capovolgere una situazione difficile, negativa o dolorosa in qualcosa di positivo. Un'operazione ardua che riesce solo a pochi fortunati, ma che probabilmente è stata la salvezza di Massimo Cavuoto, in arte «X-Max», che è stato capace di costruire una carriera artistica sulla grave malattia psichiatrica di cui ha sofferto per quasi vent'anni. E a salvarlo dalla disperazione, oltre al buddismo e agli psicofarmaci, è stata certamente anche l'arte che, come diceva Schopenhauer, «abita semplicemente al piano di sopra della follia».

Massimo ha 54 anni e vive in un palazzo del centro storico di Napoli con l'anziana madre. Del padre, negli ultimi anni di vita affetto da Alzheimer, si è occupato fino alla fine. Il «disturbo psicotico di grado severo», così come gli era stato diagnosticato a 26 anni quando cominciò a soffrire di allucinazioni, gli aveva del resto impedito di uscire dalla famiglia e costruirsi un'attività lavorativa stabile. Una malattia di cui aveva già avuto avvisaglie nella prima gioventù ma che fu irreversibilmente scatenata da una pastiglia di ecstasy, stimolante allucinogeno purtroppo molto diffuso tra i ragazzi e nelle discoteche. Massimo è stato in cura per molti anni con scarsissimi risultati («la psicoterapia era poi totalmente inutile»), fino a quando uno psichiatra di Firenze ebbe successo con un farmaco di nuova generazione che ha forse per sempre «ingabbiato» i suoi incubi.

Ma l'aspetto bello della storia è che il paziente un giorno intuì che quelle stesse allucinazioni erano materia viva per una vena artistica scoperta all'indomani di un corso di computer grafica promosso dalla Comunità Europea in un centro di salute mentale. Per lui, che prima di ammalarsi aveva frequentato alcuni anni di Architettura e lavorato nell'agenzia del padre, rappresentava la prima vera opportunità professionale, pur condizionata da lunghi periodi di crisi. «Iniziai a fare piccole collaborazioni di grafica pubblicitaria, imparando a usare il photoshop e programmi più sofisticati. A un certo punto, con quei programmi, iniziai a disegnare i miei fantasmi». A quei fantasmi - da lui ribattezzati «fantasmini» - che gli apparivano angosciosamente all'improvviso dietro le teste delle persone e nei contesti più impensati, aveva già da tempo imparato a dare un volto e un nome. «Alcuni erano ricorrenti: come quelli che chiamo i fantasmini lunari, che apparivano a fianco a persone molto colte, oppure i fantasmini solari che mi capitava di vedere all'improvviso nei contesti molto popolari, ad esempio in città, o ancora le grandi vele crociate che talvolta si materializzavano negli ambienti lussuosi, come mi è accaduto in un quartiere chic di Napoli».

Nei periodi più cupi, a questi episodi seguivano settimane di depressione, «perchè negli accessi di paranoia identificavo queste immagini a presenze di una realtà parallela, presenze persecutorie che solo io vedevo; poi, quando sono stato avviato alla guarigione grazie a una nuova terapia neurolettica, li ho battezzati capricci della chimica». In inglese Chemical vagaries, proprio come il titolo della sua mostra personale inaugurata il 7 febbraio al museo PAN di Napoli, la sua ultima esposizione dopo quella del 2015 al Castel dell'Ovo, e poi alla Galleria Fiorentino di Napoli, alla Galleria Area Contesa-Margutta di Roma, e all'associazione Artepassante di Milano. Già, perchè nelle sue incursioni nell'arte digitale ha scoperto ciò che non si sarebbe mai aspettato: e cioè che le sue allucinazioni, i suoi spettri incorniciati dentro fotografie di luoghi quotidiani o di ritratti di grandi star, divertono e piacciono ai collezionisti di arte contemporanea. Sono opere pop, o meglio «newbrow» come le ha definite qualche critico.

Trasformare il veleno in medicina, appunto. «Io mi considero guarito anche se, ovviamente, sono dipendente da farmaci che hanno in un certo senso incapsulato le mie paranoie rendendole inoffensive. Il mio nome d'arte è X-Max perchè è come se Max, cioè io, fossi un meccanismo danneggiato evidenziato da una X, ma al tempo stesso come se l'autore delle mie opere fosse un Mister X in buona parte sconosciuto anche a me stesso. Di sicuro l'arte mi ha aiutato a de-demonizzare queste apparizioni, e una medicina lo è stato anche il buddismo secondo cui non esistono colpe ma solo il karma e la legge di causa-effetto; perfetto per chi, come me, soffriva di paranoie e manie di persecuzione». Paranoie non solo visive ma anche uditive. Le «voci di dentro», parafrasando una celebre tragicommedia di Edoardo De Filippo, rappresentano una costante nei disturbi psicotici. «Le voci erano ovviamente a sfondo persecutorio, a volte terribili insulti e mi tormentavano in modo insopportabile; solo dopo, ho imparato a leggerle in modo più letterario».

Massimo è sempre stato un grande amante della fotografia, quella vera, un hobby coltivato durante gli anni in cui aveva la fortuna di viaggiare in tutto il mondo, lavorando per l'agenzia turistica paterna. Un bagaglio che certo gli è servito quando ha cominciato a fare l'artista. «Scendo in strada, nei vicoli di Napoli o nelle zone turistiche e scatto foto alla gente seduta agli chalet del lungomare, ai turisti e alle macchiette che li intrattengono, come un famoso Pulcinella in maschera che recita e chiede soldi. Poi rielaboro le immagini inserendo i miei spettri che attraversano la realtà come mondi paralleli, mescolando i personaggi delle allucinazioni con le icone e gli stereotipi del folclore napoletano». Una miscela che ha avuto successo al punto che alcuni collezionisti oggi gli commissionano opere ad hoc, facendosi ritrarre con i «fantasmini» preferiti. In altre opere, X-Max sceglie come «vittime» personaggi pop e star dello spettacolo, da David Bowie a Andy Warhol, da Richard Gere alla regina Elisabetta; a computer li trasfigura con colori acidi e sgargianti.

«I collezionisti li trovano carini e anche decorativi e io li accontento perchè oggi l'arte è il mio lavoro e ho bisogno di cominciare a guadagnare», dice. La mostra di Napoli è stata allestita grazie alla collaborazione dell'amico art director Michael J.

Kujawski (napoletano malgrado il nome) e l'associazione benefica «Aoros - Valerio Castiello». Un evento che forse interesserebbe il neurologo romanziere Oliver Sacks che sull'arte delle psicosi scrisse l'indimenticabile storia dell'«Uomo che scambiò sua moglie per un cappello».

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