La vera storia delle sorelle Fontana le stiliste che vestirono Marilyn

«Vuole che le dica la verità? Io non ci ho capito niente». Beata franchezza da sbarazzina ultranovantenne. Solo se ci si chiama Micol Fontana, si può muovere un simile appunto civettuolo ad Atelier Fontana. Per il resto la fiction che Raiuno dedica (domani e dopo) alla gloriosa saga delle tre celebri sorelle dell’«haute couture» italiana, è piaciuta moltissimo all’unica sopravvissuta del terzetto, la leggendaria Micol. «Ma questa fiction ha un neo. Solo uno. Inventa un po’. Anche se - aggiunge subito la signora, scuotendo l’impeccabile chioma adorna della celebre frezza bianca - capisco come ognuno debba fare il suo mestiere. Io per novant’anni ho solo lavorato (cominciai che ne avevo sette). E loro, per rendere la cosa più interessante, hanno dovuto per forza metterci dell'altro».
Giacchino in velluto viola con sciarpa di seta bianca, tre fili di perle e l’ormai leggendaria cotonatura, Micol Fontana - classe 1913, ma arguzia da vendere - ha letto e approvato la sceneggiatura diretta da Riccardo Milani: «L’ho trovata un riconoscimento in più al nostro lavoro. Come la laurea honoris causa della New York University, ricevuta due anni fa davanti a dodicimila studenti». Quando ha conosciuto Alessandra Mastronardi (che interpreta lei stessa) e Anna Valle (che fa la sorella maggiore Zoe), s’è stupita: «Ma noi non eravamo così belle!». Per commentare, maliziosa: «Speriamo siate altrettanto brave». S’è commossa per Anna Bonaiuto, che con appropriato accento parmigiano rifà mamma Amabile - «Donna severissima ma di prim’ordine»- e per la scena dell’udienza privata che Pio XII concesse a tutte le caterinette dell’atelier, ossia alle sartine: «Ci regalò per ricordo il suo zucchetto bianco. Ce l’ho in una teca. Vuol vederlo?». Oggi, inflessibile e ironica, si alza ancora alle sei, fa ginnastica sulla cyclette, sbriga la corrispondenza seduta fra i 250 abiti da sogno raccolti dalla Fondazione che, a suo nome, «organizza per i giovani visite guidate, lezioni, corsi di formazione». Si vanta di non essersi mai mostrata spettinata o in ciabatte. «Una sola volta le ho indossate in pubblico: all’ospedale, due anni fa, quando mi operarono al femore». Ma tre mesi dopo era di nuovo a casa. «E ora faccio le scale da sola».
Se le si chiede di scegliere un abito-simbolo, non ha dubbi: «In un film dovevamo vestire Ava Gardner da monsignore. Noi siamo cattoliche: chiedemmo il permesso al Vaticano. Loro ci mandarono un abito da cardinale da copiare. Poi quel film non si fece più; ma l’abito lo prese Fellini per La dolce vita. E da Ava passò ad Anita». Con conquistata saggezza evita giudizi troppo tranchant sulla sfilza di fulgide dive che ha vestito di sogni. «Alla mia età ho capito che la bellezza è un fatto soggettivo. Impossibile dire chi fu la più sfolgorante. Linda Christian, moglie di Tyrone Power (io sono la madrina di battesimo di Romina), dopo che le disegnammo l’abito da sposa ci telefonò: “Le mie amiche Rita e Marilyn sono entusiaste di voi!”. E le sue amiche erano la Hayworth e la Monroe. Con Ava Gardner, portata qui da Frank Sinatra e tornata poi con Walter Chiari, eravamo più che amiche, sorelle. Uno dei suoi ultimi bigliettini, prima della fine, lo scrisse a noi. Di Audrey Hepburn amavo lo spirito pronto, la deliziosa simpatia. E la bontà. Mentre girava Vacanze romane doveva sposare un lord, e noi le preparammo l’abito nuziale. Poi il matrimonio andò a monte (s’era innamorata di Mel Ferrer) ma lei pagò l’abito e lo regalò alla più povera delle nostre sarte».
Grace Kelly, poi, era addirittura un sogno. «Quando arrivava, così esile e bionda, coi suoi bambini, sembravano usciti dai racconti delle fate». L’emozione più grande, però, non l’ha provata per una donna. «Un giorno suonarono alla porta dell’atelier. Mi trovai davanti John Kennedy. Sua moglie Jackie voleva rinnovare tutto il guardaroba da noi». Per riassumere: cos’è l’eleganza? «Buon gusto e semplicità». Ne consegue quanto sia dura, per chi ha vissuto quasi un secolo fra tanto irragiungibile charme, adeguarsi alle mode d’oggi. «La minigonna? Orribile.

Serve solo a mettere in mostra le gambe. Che spesso sono brutte. I pantaloni calati per far vedere le mutande? Quelli li dobbiamo a certi stilisti d’oggi, che hanno recato danni irreparabili al buon gusto. I tatuaggi? I pearcing? Tutta roba da matti».

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