«Vi racconto mio marito Messori»

Suo marito è l’unico italiano vivente citato da Benedetto XVI – di più: raccomandato alla lettura – a pagina 64 del Gesù di Nazaret da poco in libreria. Suo marito è l’unico giornalista al mondo ad aver intervistato due Pontefici: quello che sedeva sul soglio di Pietro, Karol Wojtyla, e quello che gli sarebbe succeduto, Joseph Ratzinger. Suo marito è l’unico scrittore al quale Time, il primo newsmagazine del pianeta (4 milioni di abbonati solo negli Stati Uniti) e anche il più antipapista, si sia sentito in obbligo di chiedere qualche settimana fa un ritratto del Vicario di Cristo per inserirlo fra i 100 uomini più influenti della Terra.
Suo marito è Vittorio Messori e lei potrebbe accontentarsi d’essere soltanto sua moglie. Invece Rosanna Brichetti è una Messori al femminile, stessa fede granitica, stesso ardore apologetico, stessa capacità di scrittura, «però con tre lauree, giurisprudenza, teologia e sociologia, mica come me che ne ho una sola», ne decanta le qualità intellettuali con ironica ammirazione il consorte. Lei lo ripaga chiamandolo Mèssori, il cognome sdrucciolo che Ernesto Gagliano, capocronista di Stampa Sera, storpiò a bella posta a quel giovane praticante, con uno spostamento d’accento che avrebbe dovuto farlo sentire in soggezione.
Certo non può, e nemmeno vuole, questa moglie premurosa e discreta competere con l’ingombrante longsellerista che si ritrova per casa, così viene chiamato in gergo chi continua a vendere i propri libri anche a distanza di anni. Ipotesi su Gesù, per dire, l’opera prima di Messori uscita nel 1976, un successo da oltre un milione e mezzo di copie, tradotto persino in arabo, cinese e coreano, viene tuttora richiesto ogni anno da 20.000 lettori. E così gli altri, da Scommessa sulla morte a Patì sotto Ponzio Pilato? fino a Ipotesi su Maria. A questa editoria della fede Rosanna Brichetti contribuisce adesso con Credere per vivere (Sugarco), il personalissimo catechismo di una donna passata dalle formule di San Pio X all’agnosticismo e infine tornata nella Chiesa.
La moglie di Messori è del 1939. Ha due anni più del marito. «Ho visto tutto», dice, riferendosi agli inganni ma anche alle speranze del XX secolo. È cresciuta a Treviglio, dove il padre, un commerciante sceso da Ponte di Legno, sposato con una ragioniera, aveva aperto una segheria. I nonni materni avevano rilevato dal boemo Peck la celebre gastronomia di Milano. Ha avuto per compagno d’infanzia Ermanno Olmi, il regista dei cento chiodi conficcati nei libri e dello slogan «Le religioni non hanno mai salvato il mondo» che campeggia sulla locandina del suo ultimo film. Anni luce dai Messori. Sulla porta della loro abitazione, nel centro storico di Desenzano del Garda, ti accoglie subito il mistero: una formella del quadrato magico di Pompei salvatosi dall’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo, formato da cinque parole di cinque lettere scolpite una sotto l’altra – sator, arepo, tenet, opera, rotas, cioè «il seminatore Arepo tiene con cura le ruote» – che si possono leggere in tutte le direzioni, ma che disposte a croce formano due «Pater noster», e quindi un quadrato tutto diverso, con inserite negli angoli le due «a» e le due «o» rimanenti, l’Alfa e l’Omega di cui narra l’ultimo capitolo dell’Apocalisse, Gesù, «il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine». Quando si decideranno a scrivere, stavolta a quattro mani, la storia della loro vita, sarà un altro best seller.
Viene da una famiglia cattolica?
«Sì, a differenza dei Messori, modenesi di Sassuolo, anticlericali per antica tradizione. Ho frequentato elementari, medie e liceo classico in istituti religiosi. Alla fine ne avevo fin sopra i capelli di preti e suore. Non mi avevano mai parlato di Gesù Cristo: solo di calze grigie, di gonne sotto il ginocchio e di camicette a maniche lunghe. Se volevo vivere, dovevo uscire da quell’ambiente. Così ho fatto un’immersione nel mondo. Per tre-quattro anni mi sono tenuta alla larga dai sacramenti».
Succede.
«È la difficoltà di tutti: Cristo ti apre il cuore, ma la morale cattolica ti spaventa, ti chiude in gabbia. E quando poi mi sono riavvicinata alla fede sull’onda degli entusiasmi postconciliari, ho rischiato di diventare una cosiddetta cristiana adulta. Niente di più facile per una ragazza specializzata in sociologia con una tesi sul femminismo, che aveva lavorato al Censis col professor Giuseppe De Rita e girato l’Italia a raccogliere pareri sulla legge Basaglia e la chiusura dei manicomi per conto dell’Istituto per gli studi sui servizi sociali. È stato Vittorio a farmi riscoprire la bellezza della tradizione».
Quando vi siete conosciuti?
«Ci trovammo entrambi a frequentare il corso triennale di teologia alla Pro civitate christiana di Assisi. Lui non sapeva nulla di religione, s’era convertito da poco, a 24 anni, per quella che definisce “un’evidenza del cuore” seguita alla lettura dei Vangeli. È stato la delusione dei suoi maestri. S’era laureato con una tesi sulla storia del Risorgimento, relatore Alessandro Galante Garrone, che l’avrebbe voluto come suo assistente, e due sottotesi discusse con Norberto Bobbio e Luigi Firpo. La trimurti del laicismo duro e puro. L’avevano allevato per farne l’autore di riferimento dell’Einaudi».
Ha deluso anche la madre Emma.
«Per me è stata una suocera nel senso tradizionale del termine. La tipica mangiapreti. Era allergica al clero, non a Gesù. Gli emiliani son fatti così: vivono i valori evangelici, ma guai se gli dici che sono valori cristiani. Lo stesso Vittorio tutto avrebbe voluto tranne che diventare cristiano. Andava a messa di nascosto per la vergogna. Quando la mamma lo scoprì, pretendeva di farlo visitare da un medico, pensava che fosse in preda a un esaurimento nervoso. Ma era una brava donna, è morta bene, sicuramente si trova in paradiso. Solo che aveva il carattere di suo figlio».
Vale a dire?
«Non facile. Ruvido, al primo impatto. Ma se lo lasci un attimo schiumare, è buonissimo, generoso. Ogni tanto cerca di fare il prepotente, ma non ci riesce. Mi dice sempre: “Sta’ tranquilla, quel Gesù Cristo in cui crediamo noi lo incontreremo”».
Che cosa la colpì in lui?
«La lucidità intellettuale».
Come maturò la decisione di sposarvi?
«È una storia lunga e sofferta, che non abbiamo mai raccontato. Nei tre anni passati ad Assisi legammo molto. C’era attrazione reciproca, ma avevamo due caratteri troppo forti. Per cui alla fine del corso ci separammo. Io andai a Roma, lui tornò a Torino. Non ci vedemmo per sette anni. Per lui la delusione fu così cocente che pensò di porvi rimedio sposando un’altra donna. Questo accadde nel 1972. Presto s’accorse d’aver agito in stato di costrizione psicologica, senza la necessaria libertà di consenso, e chiese la nullità del matrimonio».
Che la Rota romana prontamente gli accordò.
«Il contrario. Proprio perché era Messori, ci fu un eccesso di scrupolo del tribunale ecclesiastico, che non voleva essere sospettato di favoritismi. Per cui la sua istanza venne respinta nei tre gradi di giudizio. Nel frattempo eravamo tornati insieme. Ma vivevamo in case separate, come fratello e sorella. Vittorio avvisò di questa sua condizione sia Ratzinger che Wojtyla, prima di accingersi a intervistarli, e loro non ebbero alcunché da ridire, essendo ineccepibile dal punto di vista canonico e morale. Fino a che il futuro cardinale Mario Pompedda, che aveva svolto le funzioni di pubblico ministero nei processi ma in coscienza s’era convinto che il matrimonio fosse nullo, stese di suo pugno una supplica al Papa per la riapertura del caso. Fu il cardinale Ratzinger a consegnarla a Giovanni Paolo II. Ne seguirono altre due cause alla Rota romana».
Neanche Carolina di Monaco...
«Un martirio durato 22 anni. Con Vittorio che dovette sottoporsi all’umiliazione di almeno sei o sette perizie. Persino la moglie alla fine testimoniò che era d’accordo sulla nullità del loro matrimonio. Frattanto io avevo smesso di frequentarlo, per non dare scandalo. E pregavo: Signore, senti, se non vuoi che ci sposiamo, significa che va bene così, sia fatta la tua volontà. Amo la Chiesa più della mia stessa vita, Cristo e la missione di Vittorio sopravanzano di gran lunga il valore della mia persona. A 57 anni, quando ormai pensavo di ritirarmi in un eremo, giunse la sentenza di nullità. E nel 1996 mi portò all’altare».
Ma lei perché era tornata alla fede?
«Per un dolore. La prima tragedia della mia vita: una storia d’amore bruscamente interrotta. Cominciai a riflettere sul significato dell’esistenza. Un giorno mi ritrovai davanti alla Madonna delle Lacrime. È un santuario dove nel 1522 il generale Lautrec, che assediava Treviglio, lasciò la sua spada e il suo elmo ai piedi dell’altare dopo aver visto un affresco della Vergine che piangeva. Ma non ero in grado di pregare, mi sentivo svuotata. Ci tornai per un mese intero. Stavo lì per ore nella semioscurità a fissare l’ostia. Solo dopo ho capito che il silenzio è lo stato d’eccellenza per l’incontro con Dio».
E come avvenne l’incontro?
«Fu un’illuminazione: quella particola mi riguardava, Cristo era morto anche per me. Contavo per qualcuno. Magari non per il mio fidanzato, ma per Dio sì. Da quell’istante la mia vita è cambiata. La precisa sensazione che perfino i capelli del mio capo erano tutti contati dal Padre non mi ha mai più abbandonata, ha dato un senso ai miei giorni, mi ha fatto sorgere il desiderio di dirlo agli altri».
Credere per vivere, lei scrive. Ma i più vivono senza credere.
«O credono senza saperlo? Di atei convinti ne ho conosciuti ben pochi. Perché un conto è credere con la ragione che Dio esista e un altro conto è sentirsi in relazione con lui. Lo Spirito prega con gemiti inesprimibili, scrive San Paolo, anche in chi dice di non credere o non sa di credere».
Lei e suo marito siete mariologi appassionati. Non le sembra strano che piangano sempre le Madonnine di gesso e mai la Pietà di Michelangelo?
«E perché la Madonna di Fatima apparve a tre pastorelli e non a un vescovo o a un giornalista? A Roma ci sono migliaia di Madonne stupende, eppure nessun romano va a pregare davanti alla Pietà. L’oggetto di devozione più intensa è la Madonna del Divino Amore, un affresco scrostato del ’500, in una cappelletta diroccata nella campagna malarica. “Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles”, canta Maria nel Magnificat, il Signore ha scacciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Sono due, sostiene Benedetto XVI, i pioli apologetici: la bellezza delle anime e la bellezza delle cose. La santità e l’arte».
Perché nel 1985 l’allora prefetto dell’ex Sant’Uffizio scelse proprio suo marito come intervistatore?
«L’iniziativa partì da Vittorio. Si ritirarono d’estate nel seminario di Bressanone, dove il cardinale Ratzinger trascorreva le vacanze. E uscì questo libro, Rapporto sulla fede, per il quale Vittorio ricevette persino minacce di morte, orribili telefonate notturne fatte da apostoli del dialogo, tanto che fu costretto a rifugiarsi per qualche tempo in un convento dei barnabiti in Alta Brianza. Non gli perdonavano d’aver dato voce al Grande Restauratore che aveva firmato l’istruzione contro la “teologia della liberazione”, d’avergli consentito d’affermare che il marxismo era “la vergogna del nostro tempo”».
Da allora è rimasto «Messori il reazionario».
«A me vien da ridere quando gli danno dell’integralista. Essendosi convertito alla fine del Vaticano II, mio marito non può certo essere nostalgico della messa in latino, alla quale non ha mai partecipato. La Chiesa di Pio XII non l’ha proprio conosciuta. Lui combatte gli abusi che derivano da una lettura faziosa dei documenti conciliari».
E la successiva intervista con Giovanni Paolo II come nacque?
«Wojtyla aveva letto tutti i libri di Vittorio e aveva fatto tradurre Ipotesi su Gesù in polacco. Nel settembre 1993 lo invitò a pranzo a Castel Gandolfo e gli chiese se fosse disponibile a intervistarlo per Raiuno. C’era già un regista pronto, Pupi Avati, e il programma era opzionato da 102 reti tv del globo. Mio marito lo dissuase: “Santità, abbiamo bisogno di un Papa, di un maestro che ci guidi, non di un’opinionista televisivo. Questa non è la crisi della Chiesa. È la crisi della fede: non si crede più”».
Che coraggio.
«E infatti Wojtyla, che era un mistico ottimista, se ne ebbe a male. “Non sono d’accordo con lei!”, batte il pugno sul tavolo. Ma poi ci rifletté e l’intervista tv fu cancellata, nonostante Vittorio gli avesse spedito un fax tutto pasticciato con le domande. A Pasqua dell’anno dopo squillò il telefono. Era Joaquín Navarro-Valls, il portavoce del Papa, che chiedeva a Vittorio di raggiungerlo all’aeroporto di Verona. Mio marito andò e lo condusse qui a Desenzano, in una pizzeria. “Sa che cosa c’è in questa valigetta?”, gli chiese Navarro-Valls addentando una quattro stagioni. “Qui dentro c’è un manoscritto quale non s’è mai visto nella storia”. Ogni sera, per mesi, Wojtyla aveva tirato fuori dal cassetto il fax di Vittorio e risposto in polacco alle domande. Alla fine aveva chiuso il tutto in una cartellina bianca con le insegne papali, scrivendoci sopra di suo pugno “Varcare la soglia della speranza”».
Il titolo del libro.
«“Il Santo Padre mi ha detto di consegnarglielo e di riferirle che lei può farne ciò che vuole”, concluse Navarro-Valls. Vittorio ci lavorò due mesi, anche per mitigare qui e là il tono risentito delle risposte. Traspariva la sorpresa di Giovanni Paolo II per alcune domande. La più sfrontata era: “Ma crede davvero d’essere il Vicario di Cristo? E come fa a reggere questo peso?”».
Molto diretto.
«Voleva evitare i quesiti da vaticanista sul matrimonio dei preti o quelli politicamente corretti, tipo il Papa e i giovani, il Papa e la pace... Gli pose gli interrogativi che assillano l’uomo postmoderno: il Vangelo è solo un’accozzaglia di leggende orientali? Sa, Vittorio sostiene che molti teologi sarebbero lieti se in Israele venissero scoperte le ossa di Gesù».


E perché mai?
«Perché così avrebbero la conferma che non è risorto, come vanno insegnando da tempo. Ma almeno si convincerebbero che è realmente esistito».
Stefano Lorenzetto
(377. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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