Viaggio nell'isola divisa da un muro dove nessuno scorda i conflitti

Nicosia sembra Berlino durante la «guerra fredda». Un Paese spaccato da una linea di confine ancora presidiata dall'Onu. Greci e turchi non sono ancora pronti a convivere

Giovanni Masini

da Nicosia

Il sole tramonta dietro un muro di filo spinato, nella sera calda e serena di Nicosia. Il profumo degli oleandri e il frinire delle cicale non deve però ingannare: la pace dell'isola, che secondo il mito diede i natali ad Afrodite, è solo apparente. Una barriera di acciaio e cemento taglia in due l'elegante teoria di palazzi liberty di Ledra street, il passeggio dei turisti è interrotto da un check point presidiato da militari e polizia.

La capitale dell'isola di Cipro è ancora divisa come nel 1974, quando l'invasione dell'esercito turco spaccò in due questa terra dalla forma di chitarra adagiata sulle acque tranquille del Mediterraneo orientale. In risposta a un tentativo di colpo di stato per unire l'isola alla Grecia dei colonnelli, quarantatré anni fa le truppe di Ankara sbarcarono sulla costa settentrionale, istituendo uno Stato fantoccio che sopravvive ancora oggi.

A sud la repubblica di Cipro, di lingua e cultura greca, Stato membro dell'Unione europea con lo sguardo rivolto al vecchio continente; a nord la Repubblica turca di Cipro Nord, entità statale fittizia controllata militarmente ed economicamente dalla Turchia. A dividerle, i centotrenta chilometri della Linea Verde: un muro di sacchi di sabbia, postazioni fortificate e trincee, che corre da una costa all'altra dell'isola, divisa come lo era la Berlino del secondo dopoguerra.

I colloqui per la riunificazione, tenutisi lo scorso novembre, non hanno dato gli esiti sperati. Due i nodi più difficili da sciogliere, e per ora insuperati: la questione del ritiro dei militari turchi, che Ankara vorrebbe a tutela della popolazione anatolica, e quella della restituzione delle terre espropriate ai greci in seguito alla guerra, ormai abitate da decenni da coloni giunti apposta dalla Turchia.

L'elezione di due governi favorevoli a una composizione pacifica del conflitto fa ben sperare, ma è evidente che le distanze fra le due parti sono ancora notevoli. Esaurite le questioni marginali, i colloqui diplomatici sono giunti al nodo del problema e il lavoro delle cancellerie non ha prodotto esiti soddisfacenti.

Mentre la diplomazia è al lavoro, le ferite della storia stentano ancora a rimarginarsi, così come quelle che ancora lacerano la memoria storica dei ciprioti, da un lato e dall'altro della Linea. Una delle più dolorose è quella dei milletrecento desaparecidos che ancora mancano all'appello. Vittime di una guerra finita ufficialmente nel 1974 ma in realtà mai davvero conclusasi. Sepolti nelle fosse comuni, dimenticati ai bordi dei campi, gettati nei pozzi per nascondere le prove dei crimini di guerra. Fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta Cipro venne sconvolta da una crudele pulizia etnica fra la popolazione di origine greca e quella di etnia turca, con massacri e persecuzioni da entrambe le parti. Prima le scorribande delle milizie irregolari dei greci contro i villaggi turchi, poi l'invasione in grande stile delle forze armate di Ankara a porre una pietra tombale sulla storia unitaria dell'isola.

Per recuperare e identificare le salme delle vittime di quegli avvenimenti è al lavoro una Commissione per le persone disperse, sotto l'egida delle Nazioni unite: sono state trovate centinaia e centinaia di corpi, riconsegnati alle famiglie dopo un esame antropologico e l'immancabile test del Dna. Milleottocento nomi, però, mancano ancora all'appello. In gran parte sono giovani coscritti dell'esercito greco-cipriota che caddero prigionieri durante l'invasione turca. La maggior parte, è probabile, fu giustiziata sommariamente.

A quarant'anni di distanza, le autorità militari di Ankara, che a Cipro Nord mantengono un contingente di quarantamila uomini, ancora si ostinano a non svelare i luoghi delle sepolture. La parte settentrionale dell'isola è infatti fortemente militarizzata, immense caserme che fiancheggiano le strade di campagna. Un'enorme bandiera turco-cipriota orna l'alta cima del monte Pentadaktylos, accompagnata dal motto di Ataturk: Ne mutlu Türküm diyen, «sono felice di potermi dire turco». Entrambe sono visibili a chilometri di distanza: un vero e proprio schiaffo in faccia ai greci che da quelle terre vennero cacciati con le armi.

Anche il patrimonio storico e artistico della popolazione greco-ortodossa è stato devastato durante i combattimenti e ancora porta le tracce della distruzione bellica. Aggirandosi per i villaggi di Cipro nord non è raro incontrare chiese convertite in moschee o abbandonate alla distruzione più totale. Nel monastero di Larnaca Lapithou i pastori macellano le capre, mentre altrove sono le pecore che si abbeverano nel vecchio battistero. Nella piccola chiesa di Santa Croce giacciono dimenticate opere d'arte dal valore inestimabile: un crocifisso ligneo bizantino del XIII secolo, scampato per miracolo alle grinfie dei trafficanti di tesori, è stato tenuto nascosto fino a poco tempo fa. Qualche edificio viene restaurato con i fondi dell'Unione europea, ma per celebrare l'eucaristia i sacerdoti cattolici e i preti ortodossi devono ottenere il permesso scritto dell'autorità militare.

Alle pendici dei monti di Kyrenia i cipressi nascondono piccoli cimiteri cristiani, profanati al tempo dell'invasione e mai ricostruiti. Nonostante sia passato quasi mezzo secolo, agli abitanti ortodossi rimasti non è ancora concesso di toccare le lapidi divelte e le bare scoperchiate, che anno dopo anno sbiadiscono al sole del Mediterraneo.

Chi resiste, lo fa con circospezione e grazie a una consuetudine che è stata lunga e difficile da raggiungere. L'unico villaggio maronita rimasto abitato è il borgo di Kormakitis, ribattezzato Korucam dopo l'arrivo dei turchi. Qui - caso unico in tutta Cipro Nord - la popolazione cristiana ha deciso di restare, aggrappata al campanile della chiesa «e alla protezione di San Giorgio«, come ancora ricordano gli anziani del villaggio. Grazie alla perseveranza del parroco di allora, la campana di Kormakitis è stata l'unica che non ha mai smesso di suonare nella parte settentrionale dell'isola. Nel convento che sorge all'ombra della parrocchiale vivono tre anziane suore francescane del Sacro Cuore, decise a non abbandonare la popolazione locale all'arbitrio dei militari.

Nel 1974 si trovavano nella parte greca, ma appena fu loro possibile decisero di tornare al convento, dove le aspettavano i bambini a cui facevano da maestre. Da allora, non hanno mai abbandonato il paese. Una di esse suor Bernadette, è italiana, originaria della provincia di Treviso, che indossa la tonaca dai primi anni Sessanta ed è missionaria a Cipro da oltre quarantacinque anni. Con le due consorelle - entrambe alle soglie degli ottant'anni - assiste la popolazione del villaggio maronita e all'occorrenza cura persino i soldati turchi di passaggio.

A volte le messe si svolgono con la scorta dell'esercito, ma negli ultimi tempi alle funzioni arrivano anche alcuni fedeli che vivono nella parte greca. I figli e i nipoti dei profughi di allora tornano per la domenica nei luoghi natali dei loro avi e in alcuni casi vi fissano la propria residenza estiva.

Le suore si fermano all'uscita della messa a chiacchierare e a mangiare un boccone di pane che, secondo la tradizione, i fedeli consumano insieme al sacerdote.

Al tramonto suor Bernadette chiude l'antica porta del convento, ma facendo attenzione a non serrare il chiavistello. Perché, ci spiega, «qualcuno di notte potrebbe avere bisogno e anche se si tratta di un soldato turco il nostro uscio è sempre aperto».

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