Vince una giornalista Ha raccontato il dolore dell'"homo sovieticus"

Non ha mai scritto romanzi. Ma (da anti comunista) ha narrato in modo straordinario le storie dei reduci dell'Afghanistan, dei suicidi, delle soldatesse dell'Armata rossa. E dei disperati di Chernobyl

Vince una giornalista Ha raccontato il dolore dell'"homo sovieticus"

«Ognuno sceglie la propria maniera di opporsi». La frase è sua, del premio Nobel per la Letteratura 2015 Svetlana Aleksievic, classe 1948, giornalista. La prima giornalista ad aggiudicarsi gli 850mila euro dell'Accademia di Stoccolma. Quello della Aleksievic è un nome che nell'ultimo mese è circolato parecchio, e non solo nei box office inglesi di scommesse, che fino a poche ore prima dell'assegnazione la davano 3 a 1, ma anche in Italia, dove è appena stata ospite al Festivaletteratura di Mantova e a quello di Internazionale a Ferrara. Da molto si sapeva che era in odor di premiazione, tanto che forse la più stupita è ancora lei, che, dice, stava stirando quando ieri ha ricevuto la telefonata che le annunciava la notizia. La Aleksievic è la Joan Didion del giornalismo russo. La voce delle seconde file negli eventi della storia russa che, dal secondo '900 in poi, hanno commosso o sconvolto il mondo. La collezionista di storie tradotte in 40 lingue e altrimenti sconosciute, eppure proprio per questo iconiche.

Le storie dei suicidi che, in seguito alla sparizione dell'Urss, hanno reso esiziale la fine di un'utopia, raccolte in Incantati dalla morte (edizioni e/o); le storie dei reduci dall'Afghanistan e delle madri dei soldati morti in quella guerra decennale e troppo spesso dimenticata che hanno dato vita a Ragazzi di zinco (edizioni e/o); le storie dei contaminati e dei bruciati e dei coraggiosi eroi allo sbaraglio dell'esplosione globale che ha avvelenato più di una generazione, accolte in quello che è forse il suo libro più celebre, Preghiera per Chernobyl (sempre e/o). E poi le storie dell'ultimo libro uscito in Italia, Tempo di seconda mano (Bompiani, 2014): diecine di istantanee di quelle che lei chiama «piccole persone», che messe insieme creano l'album di settant'anni di una nazione che ha assistito alla proclamazione del tramonto sovietico, del sogno romantico della perestrojka e della nascita della Nuova Russia in uno stato di stupore e rassegnazione per nulla catartici. Tanto che la stessa Aleksievic ama sostenere che l' homo sovieticus è una specie che non ha mai davvero rischiato l'estinzione. Ora Bompiani ha deciso di pubblicare tutte le sue opere e a novembre propone l'inedito La guerra non ha un volto di donna , pubblicato per la prima volta nel 1985 e ora completamente riscritto reintegrando le parti censurate. Nel libro, dedicato idealmente al milione di donne che hanno combattuto nell'Armata Rossa e di cui non si parla mai, la Aleksievic sceglie come protagoniste i cecchini, le autiste di camion o le assistenti negli ospedali da campo per capire come e perché una donna uccide, viene cambiata dalla guerra, dagli stenti, dalle violenze sessuali.

Innumerevoli i russi di ogni classe e ruolo - intellettuali, contadini, militanti, funzionari del Cremlino, operai e carnefici confessi, anche se lei ha scelto spesso di concentrarsi sulle donne - che hanno messo nelle mani della Aleksievic il racconto dei loro eroismi e mediocrità, dei loro misfatti e della loro nostalghia . Medicamentoso quant'altro mai, lo sguardo in apparenza distaccato della giornalista già pluripremiata prima del Nobel (citiamo il «Médicis essai» e il «Friedenpreis» nel 2013), censurata per anni, accesa sostenitrice della protesta dei «nastri bianchi», critica verso il regime bielorusso, e esiliatasi dopo il 2000 per oltre dieci anni in Europa, dove ha vissuto tra Italia, Francia, Germania e anche Svezia, ha deciso di rivolgersi verso l'esterno. Avrebbe potuto mettersi al centro delle proprie storie, vittima eccezionale tra eccezionali carnefici. Ha scelto invece il proprio modo di opporsi: offrire ai protagonisti anonimi uno spazio privilegiato perché esclusivo e protetto. Dalla sua firma, dal suo volto e ora anche dal premio più famoso del mondo.

«Un monumento al coraggio e alla sofferenza», dice la motivazione del Nobel. «Da noi la gente vuole parlare, siamo abituati a sfogarci. Raccontare il dolore fa parte della tradizione russa», sottolineava lei a Mantova un mese fa. E infatti nella pagine della Aleksievic l'intento documentaristico cede il passo ai sentimenti, i fatti e gli eventi acquistano in carne e sangue. Sarà anche un premio alla battaglia politica e sociale, questo Nobel, come è accaduto spesso negli ultimi anni, ma stavolta segna anche un passaggio epocale differente: lo smottamento del giornalismo verso la letteratura e viceversa, tanto che diventa sempre più complesso distinguerne gli stili, un'altra consacrazione dello storytelling corale rispetto alla fiction pura e all'intimismo dello Scrittore. Forse un nuovo modello di impegno letterario. O forse una maniera di opporsi all'establishment culturale codificato.

Preghiera per Chernobyl è il libro che Svetlana Aleksievic ha scritto nel 2001 dopo tre anni passati a raccogliere testimonianze, per parlare «non di Chernobyl in quanto tale, ma del suo mondo». Per gentile concessione delle Edizioni e/o pubblichiamo il capitolo «Una voce solitaria»: a parlare è Ljudmila Ignatenko, vedova del vigile del fuoco Vasilij

di «Non saprei di cosa parlare... Della morte o dell'amore?

O magari è lo stesso?... Di cosa allora?

...Ci eravamo sposati da poco. Quando uscivamo assieme ci tenevamo sempre per mano, anche se entravamo in un negozio... Io gli dicevo: “Ti amo”. Ma non sapevo ancora quanto... Non ne avevo idea... Vivevamo negli alloggi del reparto dei vigili del fuoco dove lui prestava servizio. Al primo piano. E c'erano altre tre giovani famiglie, la cucina era in comune. Di sotto, al pianterreno, c'era la rimessa delle macchine antincendio. I rossi carri dei pompieri. Era il suo lavoro. Io sapevo sempre dove si trovava, quello che rischiava. In piena notte sento un rumore. Guardo dalla finestra. Lui mi vede: “Chiudi le soprafinestre e torna a dormire. C'è un incendio alla centrale. Tornerò presto”. Lo scoppio vero e proprio non l'ho visto. Solo fiamme. Era tutto illuminato... Tutto il cielo... Le fiamme alte. La fuliggine che ricadeva. Un calore terribile. E lui che non arrivava. La fuliggine veniva dal bitume che bruciava, il tetto della centrale era coperto di bitume. Più tardi lui mi racconterà che ci avevano camminato sopra ed era molle come la pece. Loro spegnevano le fiamme. Gettavano giù a pedate pezzi di grafite incendiati... Erano partiti così com'erano, in camicia, senza indossare la tenuta protettiva. Non li aveva avvertiti nessuno, li avevano chiamati come per un normale incendio.

Le quattro del mattino... Le cinque... Le sei... Alle sei avevamo in programma di andare dai suoi genitori. A piantare le patate. Dalla città, Pripjat', al villaggio di Speriz'e dove viveva la sua famiglia ci sono quaranta chilometri. Seminare, zappare... Le sue occupazioni preferite... Sua madre ricordava spesso di come lei e il marito a suo tempo non volessero lasciarlo partire per la città, avevano anche costruito una nuova casa. Ma lui era comunque dovuto partire per il servizio di leva. L'aveva fatto a Mosca, nel corpo dei pompieri e quando era tornato: solo pompiere! Non voleva sapere d'altro. ( Tace. )

Qualche volta mi sembra di sentire la sua voce... Come quando era vivo... Perfino le fotografie non hanno su di me un effetto così forte come la voce. Ma lui non mi chiama mai... Neanche in sogno... Sono io a chiamarlo...

Le sette... Alle sette mi hanno fatto sapere che lui era in ospedale. Ci sono andata di corsa, ma l'ospedale era già stato isolato dagli agenti della milizia che tenevano la gente a distanza. Lasciavano passare solo le autoambulanze. Gli agenti gridavano: non avvicinatevi alle macchine, sono tanto radioattive che bloccano i contatori al massimo della scala. Non c'ero solo io, erano accorse tutte le mogli, tutte le mogli degli uomini che si trovavano alla centrale quella notte. Mi sono precipitata a cercare una mia conoscente che lavorava come medico proprio in quell'ospedale. Quando è scesa dalla macchina l'ho trattenuta per il camice: “Fammi passare!”. “Impossibile! Lui è messo male. Sono tutti quanti messi male”. Non la lascio andare: “Solo uno sguardo”. “D'accordo” mi fa lei, “però di corsa. Per quindici, venti minuti”. L'ho visto... Tutto gonfio, tumefatto... Quasi non gli si vedevano più gli occhi... “Ci vuole del latte. Molto latte!” m'ha detto la mia conoscente. “Devono berne almeno tre litri al giorno”.

“Ma lui il latte non lo beve”. “Adesso lo berrà”. Oltre ad alcuni medici, molte infermiere e soprattutto ausiliarie di quell'ospedale di lì a qualche tempo si sarebbero ammalate... Sarebbero morte... Ma allora non lo sapeva nessuno...»

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