Solo in America

Babe Ruth e la maledizione del "bambino" che condannò i Red Sox per quasi 90 anni

Il baseball, "passatempo nazionale" in America, da noi è roba da iniziati ma nella sua lunga storia ha dato vita ad alcune delle leggende più affascinanti dello sport. Quella del campionissimo e di come la sua maledizione abbia impedito ai Boston Red Sox di vincere un titolo per quasi 90 anni è tra le più belle

Babe Ruth e la maledizione del "bambino" che condannò i Red Sox per quasi 90 anni
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Per capire l’universo parallelo dello sport a stelle e strisce è necessario prima di tutto capire come viva secondo un calendario molto diverso dal nostro. Se nel Vecchio Continente tutto, a parte il ciclismo ed i motori, chiude per ferie da giugno ad agosto, dall’altra parte dell’oceano le cose funzionano in maniera diversa. Ogni mese è legato ad un evento speciale, dai playoff NFL alle finals del college basket, ai playoff NBA e così via. Ancora non sono però riusciti a coprire il periodo che va dal Super Bowl alla March Madness, poche settimane da incubo per gli sportivi. L’unica cosa all’orizzonte è l’inizio del cosiddetto "spring training", i camp solitamente in uno stato del sud dove le varie squadre di baseball si preparano all’inizio della lunghissima regular season. Quello che veniva definito il “passatempo nazionale” è uno sport intrinsecamente americano che sta lentamente diventando globale dopo un secolo e mezzo di storia sconosciuta alle nostre latitudini. Da noi è ancora roba da iniziati ma in molti altri stati, dal Giappone all’America Centrale, rischia di minacciare la supremazia del calcio.

Per capire cosa lo renda così speciale bisogna parlare della mitologia che lo circonda, di una ricchissima serie di aneddoti che sembrano venire da un altro pianeta. Se la passione sfrenata degli appassionati americani per le statistiche è poco comprensibile, molto più semplice parlare delle tante, coloritissime superstizioni che circondano questo sport. Poche sono così affascinanti come le maledizioni che circondano le storiche franchigie del baseball. Quella forse più famosa coinvolge una delle città più europee del continente e forse il più grande giocatore di sempre. Ecco perché "Solo in America" questa settimana vi porta a Boston per raccontarvi come la vendita di Babe Ruth abbia condannato i Boston Red Sox a quasi un secolo di cocenti delusioni e alla nascita di una delle rivalità più accese dello sport. Questa è la storia della maledizione del “Bambino” e di come la capitale del New England si schierò come un sol uomo per consegnarla alla storia.

Babe Ruth 1920

Come iniziò la maledizione

Come succede spesso nelle storie di baseball, tocca tornare parecchio indietro nel tempo, fino a quell’epoca complicata a cavallo dell’immensa tragedia della Prima Guerra Mondiale. Lo scenario è la Boston del tempo, capitale non ufficiale di una regione che sulle carte non si trova ma che è vivissima nella mente di ogni americano: il New England. Sei delle tredici colonie originarie degli Stati Uniti d’America gravitano inevitabilmente su questa grande città, tanto antica quanto molto poco americana. Si dice che i bostoniani si sentano diversi dal resto dell’Unione e, in fin dei conti molto più vicini alle isole britanniche che agli altri stati ma è più che altro una diceria dei vicini. Ricca e sofisticata, Boston si era ben presto appassionata al baseball, giungendo a sorvolare sul fatto che le serie finali avessero preso il nome da un giornale, il World, della pochissimo amata rivale di sempre, New York. La loro squadra, dagli inconfondibili calzettoni rossi, dominava lo sport come avrebbero fatto nel secolo successivo i Celtics di Bill Russell ed i Patriots di Tom Brady, per la gioia degli sportivi.

Nel 1914 il general manager dei Red Sox, Jack Dunn, adocchiò un giovane di grande talento poco lontano, a Baltimora. Questo ragazzino degli Orioles sembrava capace di grandi cose dal monte di lancio, tanto da fargli stare stretto il campionato minore nel quale giocava. Qualche mese più tardi fece un’offerta indecente e si portò a casa questo grande talento. Babe Ruth nei successivi cinque anni sarebbe diventato la pietra angolare del roster dei Red Sox, diventando il lanciatore mancino più vincente di sempre. Le tre World Series arrivate a Fenway Park in quegli anni si devono in gran parte alle stupende prove dal monte di questo ragazzone sfrontato.

Babe Ruth 1

Nel 1919 l’allenatore dei Red Sox iniziò a dargli più spazio anche in battuta, cosa parecchio inconsueta nel baseball dell’epoca. Quando un lanciatore è costretto ad andare sul piatto, di solito è un’eliminazione quasi sicura. Babe Ruth, invece, quella pallina non solo la colpiva spesso e volentieri ma la mandava anche fuoricampo con regolarità impressionante. A parte i 133 innings sul monte, mise a referto ben 29 home runs, all’epoca record assoluto nella Major League. Eppure, nonostante queste grandi prestazioni, la stagione era finita male per i Red Sox, che non erano riusciti a doppiare il titolo dell’anno precedente. Pochissimi, però, si aspettavano che quello sarebbe stato l’ultimo anno del "Bambino" ai Red Sox. Il 26 dicembre 1919 il proprietario della franchigia decise di vendere il campione ad una squadra che non se la stava passando per niente bene, i New York Yankees. Mai mossa si sarebbe rivelata più disastrosa. Harry Frazee, un nativo della Grande Mela, aveva in mano la squadra più vincente di sempre, capace di mettere in bacheca cinque delle prime 15 World Series della storia del baseball. Cosa andò storto? Una combinazione di fattori, a partire dal fatto che, dopo esser stato protagonista della vittoria del 1918, Babe Ruth si presentò al camp dello Spring Training deciso a strappare un sostanzioso aumento di stipendio.

Nonostante avesse un triennale da 27.000 dollari all’anno, il Bambino non fu in grado di trascinare i Red Sox come aveva fatto in precedenza. A lui non importava che la squadra fosse finita sesta nella American League: stava diventando popolarissimo e voleva essere pagato molto di più. "O il doppio o niente", disse Ruth. Frazee era un produttore teatrale e stava faticando ancora a ripagare il prestito contratto tre anni prima per comprare la franchigia. Gli era poi capitato per le mani un libretto molto interessante che, secondo lui, sarebbe potuto diventare un successo a Broadway. Le produzioni, però, costano parecchi soldi e lui non ne aveva abbastanza. Gli Yankees avevano proprietari dal portafoglio profondo ma facevano abbastanza pena, tanto da non essere mai arrivate nemmeno una volta in finale. Quando gli offrirono la bellezza di 100.000 dollari per il cartellino del campionissimo, non ci pensò due volte. Il famoso libretto sarebbe in effetti diventato "No No Nanette", uno dei musical più famosi dell’epoca, facendogli fare parecchi soldi. Il prezzo, incredibilmente caro, lo avrebbero pagato i Red Sox.

Babe Ruth 1918

Chi era Babe Ruth, il "Bambino"

Possibile che la vendita di un giocatore sia stata in grado di cambiare per sempre la storia di uno sport? Se si parla di Babe Ruth è quasi un understatement. Difficile per noi europei immaginare quale sia stato il suo impatto sullo sport più americano che ci sia. Il suo ex compagno di squadra Joe Dugan disse una volta in un’intervista che "per capire Babe devi pensare a lui come se non fosse un essere umano". I giornalisti si scatenarono nell’affibbiargli soprannomi grandiosi, Sultan of Swat, Behemoth of Bust al più famoso di tutti, Great Bambino. Il suo dominio sullo sport fu talmente devastante da renderlo popolarissimo in tutto il paese: le sue figurine divennero costosissime, le radio casalinghe col suo nome andavano a ruba e una compagnia di dolciumi introdusse una candy bar dal nome piuttosto sospetto, "Baby Ruth", che si vende ancora oggi, un secolo dopo. Babe nei 22 anni passati in campo distrusse ogni record del baseball, vincendo la classifica dei battitori della American League per 12 volte, mettendo a segno ben 60 fuoricampo nella stagione 1927, un record che secondo gli esperti dell’epoca non sarebbe mai stato battuto.

A parte i successi in campo, Babe Ruth era un vero e proprio personaggio, capace di catturare l’attenzione delle folle, che andavano in visibilio quando alzava il dito per “chiamare” il fuoricampo. Nonostante il suo nome sia rimasto per sempre legato al mito degli invincibili Yankees, non finì la carriera a New York. Nel 1935, quando ormai non era più lo schiacciasassi di una volta, si accasò ai Boston Braves sperando di diventarne l’allenatore la stagione successiva. Quando si rese conto che la seconda franchigia del New England non aveva intenzione di mantenere la promessa, appese il guantone al chiodo dopo solo 28 partite.

Babe Ruth 1912

Nonostante il grande successo, il Bambino non aveva avuto un’infanzia facile. Nato a Baltimora, aveva fatto impazzire a tal punto i genitori che lo affidarono, disperati, alla St. Mary’s Industrial School, una specie di riformatorio cattolico, quando aveva solo sette anni. Nella sua autobiografia, Ruth scrisse che "ripensando alla mia infanzia, onestamente non ricordo esser mai stato in grado di capire la differenza tra il bene e il male". Non solo era un piccolo criminale ma era definito "incorreggibile", una specie di piccola peste. Invece di rovinarlo, gli anni alla St. Mary furono la svolta: fu lì che si innamorò del baseball, diventando talmente bravo da guadagnarsi un contratto con gli Orioles il giorno di San Valentino del 1914, appena compiuti 19 anni. La stessa data di nascita del campionissimo è un mezzo mistero, tanto da causare un mezzo incidente internazionale. Nel 1934, quando la MLB decise di mandare in Giappone una squadra coi migliori giocatori della lega per rendere più popolare lo sport, Babe Ruth si rese conto che era nato quasi un anno dopo di quanto gli avevano fatto credere i suoi genitori, il 6 febbraio 1895.

La cosa, a dire il vero, non dovrebbe stupire troppo, visto che veniva da una famiglia piuttosto turbolenta. Suo padre, George Herman Ruth Senior, era il proprietario di una catena di bar non particolarmente altolocati. Un giorno, nell’agosto 1918, mentre stava dietro il bancone, una rissa scoppiò tra due dei suoi cognati. George iniziò a litigare pesantemente con uno di loro, risolvendo il tutto in una zuffa micidiale in strada. Secondo il resoconto della polizia, il padre del campione cadde pesantemente, fratturandosi il cranio nell’impatto. Nonostante i tentativi dei medici, non ci fu niente da fare. L’ombra del padre rissoso aleggiò a lungo sul "Bambino", con buona parte degli incidenti perdonatigli dai fan e dalla stampa adorante.

A New York si narra ancora di come andasse a giro a velocità folle con la sua potente fuoriserie. L’8 giugno 1921 fu arrestato a Manhattan per aver superato il limite di velocità due volte in un mese. Dopo aver passato una giornata in prigione, fu rilasciato 45 minuti prima l’inizio di una partita degli Yankees. Il Bambino non si fece troppi problemi: si mise l’uniforme di gioco sotto il vestito e si fece accompagnare da una moto della polizia allo stadio. Non c’è niente da fare, era davvero un giocatore di quelli che passano una volta nella vita. A Boston, purtroppo, avrebbero avuto molto tempo per pentirsi di esserselo lasciato scappare.

Babe Ruth Hall of Fame

Un inferno lungo 86 anni

L’arrivo del più grande campione di sempre mise permanentemente gli Yankees sulla mappa del baseball. Da allora la franchigia della Grande Mela è arrivata alle World Series 37 volte, aggiudicandosene ben 26 nel 20° secolo, quattro dei quali con il Bambino. Il percorso dei Red Sox fu diametralmente opposto: dopo aver dominato lo sport per vent’anni, la franchigia del New England entrò in una crisi apparentemente irreversibile. Nessuno se lo sarebbe mai potuto immaginare, ma ci sarebbero voluti quasi trent’anni per rivedere i “calzettoni rossi” nella finalissima del baseball. Quando nel 1946 i Red Sox incrociarono i St. Louis Cardinals nelle World Series, i bookmakers li davano per favoriti due a uno.

Eppure la squadra di Boston non riuscì a piegare la resistenza degli avversari, finendo per decidere tutto nell’ultimo inning di gara 7. A rovinare le speranze di rivincita dei fedelissimi di Boston un errore dell’interbase Johnny Pesky. Il corridore dei Cardinals Enos Slaughter aveva approfittato di uno svarione della difesa per involarsi verso casa base ma Pesky sembrava avere tempo di far arrivare la pallina al catcher ed eliminarlo. Incredibilmente, invece, l’interbase ritardò troppo il passaggio, consentendo a Slaughter di segnare il punto della vittoria.

Invece della rinascita, la sconfitta segnò l’inizio di un nuovo periodo nero per i Red Sox, che ci misero 21 anni per tornare in finale. Tutto sembrava pronto per la vendetta perfetta, visto che nel 1967 si trovarono ancora di fronte i Cardinals ma la serie non si mise bene per Boston. Il tecnico Dick Williams decise di affidarsi al lanciatore migliore, Jim Lonborg, che aveva fatto riposare per due giorni. La stella dei Red Sox incappò in una partita disastrosa, concedendo perfino un punto al lanciatore avversario. Non solo i Cardinals vinsero facilmente per 7-2 ma l’ansia di rifarsi subito sarebbe costata carissimo ai Red Sox. Nella offseason Lonborg ebbe un incidente mentre sciava, danneggiandosi i legamenti del ginocchio. Il lanciatore riuscì a rientrare in campo a metà della stagione successiva ma non sarebbe più stato lo stesso, condannando ancora i Red Sox ad una serie di annate deludenti.

Se possibile, le cose andarono ancora peggio nel 1975, quando la serie finale contro i Cincinnati Reds finì in maniera romanzesca. In quella che molti considerano una delle partite più belle di sempre, un fuoricampo da tre punti di Bernie Carbo all’8° inning portò gara 6 ai supplementari. I Red Sox non ne volevano sapere di mollare, mettendo prima una presa miracolosa di Evans al 10° e poi un fuoricampo al 12° di Carlton Fisk che rimbalzò sull’asta che segna il fallo a sinistra del lanciatore, un evento rarissimo. Purtroppo per i tifosi del New England, gara 7 fu conclusa da un fuoricampo dei Reds all’ultimo inning, che negò ancora la vittoria ai Red Sox, che erano stati superiori in tutte le statistiche ma se ne tornarono a casa senza il trofeo.

Nel 1986, quando di fronte avevano i New York Mets, sembrava che la fortuna avesse finalmente deciso che l’attesa era finita. In gara 6 i Red Sox arrivarono per ben quattro volte ad un solo out dal trionfo, per essere condannati da uno degli errori più famosi della storia del baseball. Il prima base di Boston Bill Buckner si trovò a prendere una palla semplicissima, lenta e rasoterra, roba che neanche un bambino di sette anni avrebbe sbagliato. Non solo la palla gli passò sotto il guantone ma finì all’esterno, costringendolo a rincorrerla per qualche secondo di troppo. Ray Knight dei Mets ne approfittò per segnare il punto della vittoria. In gara 7, con Boston avanti 3-0 all’inizio del 6° inning, nessuno si sarebbe immaginato che i Red Sox sarebbero implosi in maniera così clamorosa. In soli tre innings concessero ai Mets ben otto punti, finendo per perdere ancora una volta. A questo punto, anche il più scettico dei tifosi di Boston si convinse che qualcosa non tornava. Qualcuno aveva messo il malocchio sulla sua squadra.

Red Sox Yankees

La maledizione? La inventò la stampa

Il passaggio dal malocchio alla maledizione se lo inventò la sempre creativa stampa di Boston. Dopo aver passato giorni e giorni a festeggiare in anticipo il trionfo, quando le cose si misero male in gara 6, molti cronisti furono costretti a cambiare i loro articoli in fretta e furia. Un giornalista mandò una ribattuta nella quale si parlava di una squadra jinxed, sfortunata. Vecsey passò ad usare la parola maledizione dopo gara 7, quando pubblicò un articolo intitolato "la maledizione di Babe Ruth colpisce ancora". Nell’attacco si legge che "tutti i fantasmi, i demoni e le maledizioni degli ultimi 68 anni ieri sera hanno continuato a perseguitare i Boston Red Sox".

La narrativa della maledizione era nata ma per farla diventare ufficiale ci volle un libro del 1990 del giornalista del Boston Globe Dan Shaughnessy chiamato, appunto, "la maledizione del Bambino". A quel punto tutti nel New England si convinsero che era stato proprio il grande campione a gettare il malocchio sulla loro amata squadra. Da quel momento tutti parlarono della maledizione, con il pubblico diviso tra scettici e sostenitori, con il fuoco delle controversie che veniva attizzato ad arte dalla stampa, ansiosa di capitalizzare al massimo questa storia. Sulla maledizione si è scritto montagne di articoli, realizzati documentari televisivi e perfino una piece teatrale ma toccò ai tifosi dei Red Sox prendere in mano le cose per liberare la propria squadra dalla sfortuna.

Boston Red Sox 2010

Un misterioso tifoso prese di mira un cartello a lato del Longfellow Bridge che avvertiva di una curva pericolosa più avanti. La scritta "reverse curve" venne modificata a mano in "reverse the curse", ovvero "cancella la maledizione", da uno spericolato fedelissimo dei Red Sox. La scritta con vernice bianca veniva ripulita dalle autorità cittadine ma, nel giro di poche ore, tornava come se niente fosse a ricordare a tutti gli automobilisti che il futuro della loro franchigia dipendeva anche dalle loro preghiere. Questo gioco tra guardie e ladri continuò per anni, con qualche tifoso sempre pronto a modificare questo cartello, posizionato diversi metri sopra la carreggiata, tutto per una specie di fioretto, per quella maledetta vittoria che non arriva mai. Il famoso cartello ha continuato a rimanere lì, costante memoria che la maledizione non solo è reale ma che stava rovinando la vita ai tifosi dei Red Sox.

Visto che il cartellone non funzionava, una personalità radiofonica della grande città si inventò qualcosa di ancora più strano, un vero e proprio esorcismo. Davanti allo storico impianto di Fenway Park, una folla di tifosi evidentemente cattolici si strinsero attorno ad un esperto esorcista mandato dalla diocesi per "liberare" lo stadio ed i Red Sox da qualsiasi influenza malvagia. Visto che non tutti sono fedeli a Santa Romana Chiesa, ci fu anche chi ingaggiò delle streghe “professioniste” per togliere il sortilegio che impediva alla squadra cittadina di tornare a vincere. Nonostante tutti gli sforzi, i Red Sox continuavano a perdere. La maledizione sembrava resistere a tutto e a tutti...

Come la maledizione ebbe fine

A cavallo del millennio, la mania della maledizione prese sempre più piede a Boston, diventando una specie di ossessione collettiva. Nel 1999 i Red Sox invitarono Julia Ruth Stevens, figlia del campionissimo a fare il primo lancio cerimoniale per gara 4 della finale della American League per provare a placare lo spirito irrequieto e vendicativo del Bambino. Per la prima volta la franchigia ammise che la maledizione era più di una leggenda metropolitana ma neanche questo gesto servì a garantire alla squadra l’approdo alle World Series. Due anni dopo uno spericolato ed atletico tifoso dei Red Sox provò a contribuire all’esorcismo collettivo in maniera abbastanza inusuale. Seguendo il consiglio di un monaco buddista tibetano, portò in cima al Monte Everest un cappello dei Red Sox dopo aver bruciato in una cerimonia improvvisata un cappello degli odiati Yankees al campo base. Niente da fare, nemmeno la saggezza tibetana riuscì a fare il miracolo. Nel 2002 un gruppo di tifosi andò in un laghetto nella cittadina di Sudbury, dove il campione aveva una casa di campagna, cercando un piano che, secondo una leggenda del posto, il Bambino avrebbe buttato in acqua. Molti credevano che se fosse stato recuperato e restaurato, la maledizione sarebbe davvero finita. Insomma, la mania collettiva stava degenerando nel ridicolo, tanto da diventare un caso nazionale.

Se andate a Boston e chiedete cosa sia stato a rompere la decennale maledizione, probabilmente vi daranno mille risposte diverse ma una è particolarmente diffusa. Nel luglio del 2004, durante una partita a Fenway Park, una battuta finita in fallo del campione Manny Ramirez colpì in pieno volto un ragazzino, facendogli saltare due denti. Cose del genere capitano ogni tanto negli stadi di baseball ma, col senno di poi, qualche tifoso dei Red Sox si rese conto che il ragazzino viveva proprio nella fattoria di Sudbury che una volta era stata di Babe Ruth. Si iniziò quindi a diffondere la voce che la maledizione era finita, specialmente quando la squadra iniziò a giocare davvero bene. Per uno dei tanti scherzi del destino, nella finale della American League del 2004 i Red Sox si trovarono ancora di fronte i New York Yankees a giocarsi l’accesso alle World Series. I tifosi si disperarono quando, partita dopo partita, gli odiati rivali si portarono sul 3-0, un vantaggio che nessuna squadra fino a quel momento era stata in grado di ribaltare.

Qualcosa scattò nella squadra, una serie di partite incredibili che fecero esplodere di gioia tutta Boston. Quando in finale, ancora una volta, i Red Sox si trovarono di fronte i Cardinals, gli scongiuri in città si sprecarono ma non ce ne fu affatto bisogno. Incredibilmente i “calzettoni rossi” misero un clamoroso sweep, trionfando con un nettissimo 4-0 e vincendo il primo titolo MLB dopo 86 lunghissimi anni. Per un’altra delle mille coincidenze di questa storia, l’ultimo giocatore eliminato dai Red Sox, l’interbase Edgar Renteria, portava il numero 3, lo stesso che il Bambino aveva reso famoso. Un caso? Nessuno a Boston ci crede davvero. Dopo quasi 90 anni, il campionissimo ne aveva avuto abbastanza. La maledizione era finita.

Che ci crediate o meno, importa davvero poco. Magari mi terrei per voi lo scetticismo casomai doveste parlare con un tifoso di Boston. A queste cose ci tengono parecchio. D’altro canto, come dargli torto? Dopo che la psicosi è finita, i Red Sox sono diventati il primo club ad aggiudicarsi quattro World Series nel 21° secolo, trionfando anche nel 2007, 2013 e 2018. Magari è solo un caso, ma come coincidenza sarebbe proprio strana.

Una cosa è certa: cose del genere possono succedere solo in America.

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