L’argomento è appassionante. Nel senso che appassiona. A Milano con l’indignazione motivata dal contrasto: un’immagine di Madonna, seminuda, per una pubblicità sul fianco del Duomo. Ma da anni se ne parla anche in relazione alla semplice collocazione in luoghi simbolici, senza volontà di provocazione.
È un dibattito acceso e talvolta insensato per la natura precaria e provvisoria della cosa di cui si parla. Immagini sguaiate, volgarmente pubblicitarie, invasive, davanti o sopra un monumento. Alla fine, dopo aver tentato di comprendere, ma con una prevalente smorfia di disgusto difficilmente componibile, il Fai, insomma le persone di buon gusto anche se di mondo che ne rappresentano i vertici, non ci ha visto più. E, credo dopo il balletto di Bolle in Piazza San Marco (peraltro su un palchetto rivestito di un «preservativo» di straordinaria bruttezza), incamminandosi verso la terrazza del Danieli con la veduta mozzafiato del bacino del Canal Grande, non era possibile, per quelle anime belle, non posare lo sguardo su ciò che ha strappato il loro biasimo. Con tutte le giustificazioni del mondo, e il rispetto per le esigenze degli sponsor e degli inserzionisti paganti, il Fai manifesta la sua preoccupazione per il ripetersi di fenomeni come quello che interessa ora a Venezia l’intera area del Ponte dei Sospiri, che ricomprende un’area del Palazzo Ducale, le Prigioni, la zona di Sant’Apollonia e il sottostante canale, non più visibili a causa di un’imponente copertura pubblicitaria a colori sgargianti. Il Fai peraltro riconosce «la necessità per le pubbliche amministrazioni e i privati di reperire fondi per restauri e manutenzioni indispensabili per la conservazione del patrimonio artistico e monumentale».
Da molto tempo un cielo azzurro riveste Palazzo Ducale: copre l’impalcatura per i restauri dell’edificio. Un altro grande manifesto con una pubblicità di una casa di moda sta sopra la parte degli edifici che costituiscono le gallerie dell’Accademia. Sono invadenti e brutti, e animano la città con un infinito dibattito che la Sovrintendente Renata Codello ha tentato di spegnere sottolineando che con i soldi ricavati dai concessionari la ditta pubblicizzata contribuisce al restauro. Sarà vero. Il Fai, questa volta, sembra non ascoltare ragioni, osservando come, dopo la dolente visione del Ponte dei Sospiri affogato nel cielo artificiale, questo patrimonio artistico «non venga in realtà tutelato se la formula della pubblicità non è contenuta in moduli dimensionali ed espressivi accettabili». Battaglia sacrosanta ma che rischia di essere velleitaria e di confinare con la censura, perché occorre capire quale sia il criterio per stabilire il «modulo espressivo accettabile».
Al di là delle dimensioni, infatti, è accettabile ciò che è convenzionalmente gradevole, mimeticamente cartolinesco, non provocatorio. (Cioè inefficace: si pensi ad Oliviero Toscani). La pubblicità, come l’arte contemporanea, anzi, come parte dell’arte contemporanea, obbedisce a norme estetiche spesso incompatibili con il «convenzionale e il buon gusto». Un maestro del secolo scorso, Andy Warhol, porta nelle sue opere il marchio della Coca Cola o di altri prodotti. Esponendo davanti al Ponte dei Sospiri si obbedisce a criteri «accettabili»? Il pubblicitario potrebbe dire, cito Andy Warhol: «Mi pare più compatibile di una immaginetta graziosa e educata». Cosa potrebbero tollerare, dunque, queste impalcature? Tutto, si sarebbe tentati di dire, purché paghino. Non è un’affermazione cinica e neppure una risposta polemica al Fai.
In astratto il Fai ha ragione, ed è mia intenzione istituire su Venezia una serie di verifiche precise su tutte le pubblicità che coprono i monumenti, valutando il rapporto tra costi e benefici. Togliendo la pubblicità avremmo preservato i monumenti dalla speculazione commerciale, ma non avremmo ottenuto di vederli, restando essi a tempo indeterminato occultati dalle impalcature. Il danno alla bellezza non viene fatto dalla pubblicità in sé, ma dalla mancata visione del monumento. Che siano impalcature o manifesti prepotenti e invadenti, ai fini della bellezza del luogo o del suo godimento, il risultato è lo stesso. L’opera d’arte resta invisibile.
Occorre dunque, anche rispetto alla pubblicità, considerare per quanto tempo un monumento è oscurato, cancellato a causa del restauro. È dunque necessario non tanto immaginare un divieto totale e permanente dei cartelli pubblicitari sui monumenti, ma fare un’attenta verifica degli interessi delle pubbliche amministrazioni rispetto a quelli dei concessionari, in un equilibrato rapporto che non veda lo Stato (e il cittadino) perdente.
Conosco gli interessi di quanti hanno agenzie pubblicitarie e offrono il restauro di un monumento in cambio del tempo di esposizione di pannelli pubblicitari sulle impalcature, ma, ripeto, le impalcature nude non risolvono il problema. Per 14 anni il protiro della Cattedrale di Ferrara fu, con sofferenza di tutti i cittadini, coperto da nudi assi in legno marrone. Era comunque insopportabile per il tempo troppo lungo di occultamento del Giudizio universale e non era più accettabile della pubblicità. Anche in quel caso la bellezza fu sottratta.
Anche peggio a Modena, dove il Comune ha pagato una cifra piuttosto alta per rivestire la Ghirlandina con una decorazione a capricci geometrici del celebre pittore Paladino. (Circa 400mila euro, e altri ancora per rimontarla dopo che era stata danneggiata dalle intemperie). Una scelta «estetica» discutibile e discussa oltre che costosa. Perché Paladino? A vantaggio del mercato e a spese della Pubblica Amministrazione? La scelta in tal caso appare riprovevole anche sul piano morale. E non offre una soluzione.
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