Con la scusa dell'odio ci imbavagliano

Il regolamento dell'Agcom

Con la scusa dell'odio ci imbavagliano

Occhio a quello che dite e a quello che scrivete. E forse anche a quello che pensate. Non solo se siete giornalisti, anche perché, grazie alle reti sociali, sono tutti un po' giornalisti e tutti possono dire quello che gli pare e piace. Ieri il garante per le comunicazioni, l'Agcom, ha tracciato un limite inviolabile oltre il quale si sprofonda nell'hate speech. Chi sgarra viene segnalato e poi multato. Fino a qui siamo tutti d'accordo. Il problema è: quali sono le parole d'odio? Perché a questo punto entra in ballo la sensibilità personale e quindi, almeno in una certa misura, anche la soggettività.

Le parole d'odio - spiega l'Agcom - prendono di mira bersagli specifici (come le donne, gli omosessuali, gli immigrati, i rom, le persone di colore). Parole che farebbero leva su stereotipi e luoghi comuni. Ma nel mirino del garante finiscono anche i contenuti di cronaca che possono portare a «pericolose generalizzazioni». E la questione si fa sempre più complicata. Facciamo un esempio pratico: lunedì a Mirandola un giovane marocchino ha dato alle fiamme le sede dei vigili urbani, uccidendo due persone e ferendone altre venti. Posso dire che è marocchino? Oppure sto seminando odio nei confronti della popolazione del Nordafrica? E se, come purtroppo molte volte è accaduto, qualcuno fa una strage nel nome di Allah, possiamo scriverlo o dobbiamo tacerlo per non turbare la sensibilità degli 1,8 miliardi di musulmani nel mondo? Perché quelle non sono parole d'odio, sono parole che raccontano l'odio. Odio altrui, non di chi scrive. Altrimenti bisogna smettere di raccontare e gettare alle ortiche i 5 pilastri del giornalismo, le domande: «Chi? Che cosa? Quando? Dove? Perché?». «Chi», se si tratta di uno straniero, è meglio non dirlo. «Perché», se in ballo ci sono questioni politiche e religiose, meglio evitare di esplicitarlo. Non sia mai che qualcuno generalizzi e pensi, per esempio, che tutti gli islamici siano kamikaze o che tutti gli zingari siano borseggiatori. Non c'è bisogno che arrivi qualcuno a mozzarci la lingua, noi occidentali siamo specializzati nell'arte di tagliarcela da soli. Anche perché chi è l'arbitro che decide cosa si può dire e cosa no? In parte l'Agcom stessa, che si impegna a monitorare il flusso di informazioni. Ma controllare tutto, dalle gazzette di provincia alle tv nazionali passando per Facebook e Twitter, è umanamente e tecnicamente impossibile. Quindi il garante si baserà anche sulle denunce di associazioni e organizzazioni rappresentative.

Ed è ovvio che l'associazione che difende i nomadi vedrà ovunque un attacco ai nomadi. Perché quello è il suo lavoro. Così il regolamento dell'Agcom rischia di diventare una pericolosa tagliola che ingabbia ancora di più la parola nei recinti angusti della religione del politicamente corretto.

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