In una lingua improbabile escono le motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. L'accusa si sofferma sugli incontri che Vittorio Mangano ebbe con Dell'Utri «per sollecitare l'adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo ampie e concrete (sic!) rassicurazioni».
Il collegio giudicante conviene che le iniziative non «fossero state effetto diretto di una minaccia», legandole piuttosto a «libere scelte di quella consistente componente di soggetti facenti parte (sic!) di Forza Italia che, per risalente (sic!) asserita (sic!) vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti governi»... «Ciò però non toglie che ugualmente gli interventi di Mangano nei confronti di Dell'Utri possano (sic!) avere avuto una obiettiva (sic!) attitudine (sic!) ad intimorire il destinatario finale, individuato (sic!) dai mafiosi in Berlusconi, indipendentemente dal fatto che l'effetto intimidatorio, purché (sic!) comunque percepibile, possa avere inciso concretamente sulla sua (di chi?) libertà psichica (sic!) e morale (sic!) di autodeterminazione (sic!)». È possibile scrivere in questo modo?
«Vi è la prova che Dell'Utri interloquiva con Berlusconi anche al (sic!) riguardo al (sic!) denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (sic!) nel quale
incontrava Mangano... Ne sarebbero prova le dichiarazioni del pentito Cucuzza». «Vi è la prova» diventa «ne sarebbero prova». E «le dichiarazioni del pentito», comunque, non sono una prova: sono una (discutibile) testimonianza.
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