Scrivere è una malattia che reca salvezza. Chi si ammala di scrittura guarisce dalla vita. È per questo che a volte scrivere sostituisce il vivere, ti porta lontano dalla vita fino a penetrare nel suo cuore e cogliere la sua più vera essenza. Scrivere è congiungere con un tratto di penna l'anima e il mondo. La scrittura dona una piccola immortalità che non è la fama presso i lettori, ma la percezione, o forse l'illusione, di aver messo in salvo qualcosa di te, al riparo dal temporale. Non è necessario che ti leggano per scrivere, ma è necessario leggere per scrivere, perché leggendo inspiri e poi scrivendo espiri. Pensavo a quel bisogno fatale di scrittura raccogliendomi a leggere uno scrittore di pensiero che preferì restare invisibile tutta la vita. È passata la mezzanotte e scrivo di lui sotto la luna piena, mentre tra le cicale si insinua da lontano come un regalo delle stelle la Gymnopédie, l'incantevole sonata di Erik Satie...
Dico di Andrea Emo, nobiluomo veneto, discendente di dogi, morto a Roma giusto trent'anni fa all'età di 82 anni, dopo una vita passata in ombra, tra case patrizie e palladiane, come la splendida Villa Emo, solitudini stellari, perfino una militanza da missino e uno sciame di letture e di quaderni. Centinaia di taccuini compilati lungo mezzo secolo, anzi di più, in assoluta clandestinità di pensiero, senza mai esporli, di cui escono ogni tanto perle, estratti, fiotti, come in un'Emorragia di pensieri. Ora è uscito uno squisito libro di aforismi e riflessioni, La voce incomparabile del silenzio (Gallucci, pagg. 363, euro 15) a cura di Massimo Donà e Raffaella Toffolo. Donà è, con Cacciari, lo scopritore di questo filosofo introverso, e con lui e Giulio Giorello firma una nota di postfazione. Delle opere di Emo è curatore pure Romano Gasparotti, mentre Giovanni Sessa curerà la pubblicazione di un altro quaderno.
Allievo in disparte di Gentile, Emo tracciò nei suoi appunti il versante tragico dell'attualismo gentiliano, ne delineò l'ombra, il negativo. Colse l'immortalità dell'attualità e del fugace istante, «quando è attualità pura, cioè attualità del proprio nulla». In Gentile fiammeggia la fiducia nello spirito e un operoso ottimismo che confida nell'umano; in Emo l'orizzonte di pensiero resta l'idealismo ma si spegne la fiducia spirituale e il confidare nell'umano. Emo coglie la coincidenza fra essere e niente, nel triangolo fra l'eterno, l'attuale e il nulla. Questo florilegio di Emo è incentrato proprio sulla scrittura. Secondo Emo la maggior parte delle persone scrive per nascondersi, mentre lo scrittore dovrebbe essere quell'uomo d'eccezione che scrive per manifestarsi e dire la realtà. Ma lui non manifestò la sua scrittura, la svolse in segreto. Si definì persona di poco fondamento, inetto a qualunque cosa, con qualche vena di pazzia. Se un giorno sarà dimenticata la nostra presenza, scrisse, sarà sufficiente che sarà ricordata la nostra assenza. «Ciò che scriviamo è una lunga lettera ad ignoti, a lettori sconosciuti o futuri, che forse non esisteranno mai: che porteranno il nome omerico di: Nessuno».
Il filosofo per lui è l'uomo condannato a dire solo parole definitive; mentre la poesia è sempre in esilio in una regione arida e impoetica e dunque sorge per contrasto con l'ambiente. Il pensiero per lui modifica quel che tocca, mentre il sentimento puro accetta tutto, ne canta la presenza e l'assenza. Il pensiero è maschile, dice Emo in epoca prefemminista, anzi fascista, il sentimento è femminile. In una splendida immagine definisce la poesia come l'arcobaleno che unisce le due rive ignote dell'essere e del non essere. L'arcobaleno su cui passano i nostri pensieri e le immagini, e tutto ciò che non obbedisce alla forza di gravità. L'arcobaleno, ricordava, concilia il cielo con la terra. La poesia per lui è l'arte delle scorciatoie, l'arte di arrivare in anticipo per vie traverse, sentieri e dirupi, dove il pensiero razionale e riflessivo perviene più lentamente mediante le vie maestre. Nei suoi appunti concede poco spazio ai ricordi di vita perché per lui un libro di memorie è un'orazione funebre pronunciata dal morto stesso; nel ricordo, ci sveliamo «attualmente morti», in una coincidenza attualistica di morte e vita.
Emo non è solo un pensatore aristocratico ma della solitudine fece la cifra del suo pensiero, consapevole solipsista: «Essere l'unico lettore dell'unico proprio libro, della propria unica vita, del proprio unico assoluto... Essere come un principe dello spirito, travestito da mortale che, incognito e ignorato, vive tra i propri sudditi». Per compensare il suo esercizio di disperazione sulla scrittura, converrà forse affiancare queste pagine ad altre di pari intensità che il filosofo spiritualista Louis Lavelle dedicò a La parola e la scrittura, un testo del 1942, uscito nove anni fa da Marsilio. Lavelle afferma che la parola e la scrittura sono i due miracoli che fanno scendere il pensiero nel mondo della voce e dello sguardo, dell'azione e dello spettacolo, obbligandoli a congiungersi. Tramite la parola e la scrittura, lo spirituale si fa carnale. Emo percorre la stessa via ma in senso inverso: nell'istante della vita e nella veloce parabola della parola il carnale si dissolve nello spirituale. Muore in purezza, come l'Atto gentiliano.
Le cicale intanto hanno ripreso il sopravvento sulla musica di Satie. È incessante il loro frinire, vivono in coro la loro breve eternità. Poi il silenzio ha inghiottito ogni suono.
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