Leggo con duplice orrore le analisi della crisi economica. Perché ci presentano quasi sempre un quadro desolante e drammatico, senza vie d'uscita. E perché riguardano un terreno ostico che detesto, la contabilità e la finanza. Ma anche se non ti vuoi occupare di finanza, la finanza si occupa di te, pesantemente. Se al tema si dedica Alain de Benoist, pensi che alla fine prevarrà il discorso filosofico e l'analisi culturale. E invece in questo libro, La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli (Arianna editrice, pagg. 128, euro 9,80 con una puntuale prefazione di Edoardo Zarelli), de Benoist s'inoltra con efficacia nel terreno minato dell'economia e spiega quel che gli economisti non sanno e non vogliono spiegare. Chi ha una visione del mondo riesce a dare una visione delle cose più comprensiva e comprensibile, e perfino più realistica, degli economisti e dei tecnici esperti. Partiamo dunque da un atto d'ammirazione per de Benoist che a settant'anni suonati depone la tunica del pensatore per studiare, capire e far capire gli scenari economici del presente.
La prima cosa che colpisce di questo testo è che de Benoist ha sott'occhio la situazione francese, ma le analogie con la nostra situazione sono tante ed evidenti. E questo da un lato conforta perché vuol dire che non siamo i brutti anatroccoli dell'Europa, ma dall'altro sconforta perché mostra la radicalità e l'estensione della crisi e l'omologazione dei popoli e degli Stati sotto il rullo compressore della cosiddetta «dittatura finanziaria». Tanti nostri ragionamenti sul caos italiano e sulle risposte necessarie li ritroviamo in de Benoist. La sostituzione del popolo sovrano col debito sovrano e del governo con la governance sono indizi inquietanti. Così l'imposizione del pareggio di bilancio. Il diktat di svenarsi e non per abbattere il debito, ma solo per pagare gli interessi sul debito, impone che la sudditanza diventi permanente; saremo sempre sotto schiaffo. E poi le agenzie di rating che non captano gli umori del mercato, ma li orientano, come le streghe di Macbeth non predicevano il futuro, ma lo indirizzavano. E lo svuotamento della politica e delle sue categorie, l'incapacità di fronteggiare il dominio tecno-finanziario, a destra come a sinistra.
Sul piano mediatico-culturale, aggiungo, il nuovo potere impone alla destra di accantonare la bioetica, la famiglia e i valori tradizionali e alla sinistra impone di mettere da parte lo Stato sociale, i vincoli al mercato e la tutela del lavoro. Così vengono allineati, neutralizzati e cooptati nell'establishment. Tutto questo configura non solo un pensiero unico, liberista quanto basta e libertario quanto serve, radicalmente eterodiretto e politicamente svuotato. Ma delinea una forma nuova di totalitarismo. Che non è il dispotismo fondato sul terrore, sulla violenza e sul partito unico, ma una forma di «globaritarismo», come lo chiama Paul Virilio, in virtù del quale non c'è più un altrove. Così definimmo il totalitarismo: tutto è dentro, niente è fuori, e tutto quel che resiste viene fatto fuori. Reset. Non esistono diverse vie, una è la via e si procede in automatico. Altrimenti sei fuori dalla contemporaneità o dalla legalità, dall'Europa e della globalizzazione. Questa ideologia è criptata, non si presenta cioè come ideologia e regge su un presupposto: la perdita di ogni visione pubblica e collettiva nella dimensione privata e individuale, l'orizzonte storico e culturale sostituito da un orizzonte biologico e contabile. Anche de Benoist ritiene, come ho già sostenuto su queste pagine, che tutto questo non sia frutto di un complotto ordito nella segreta stanza dei Poteri Occulti: la mondializzazione non ha centro, solo burattini anonimi, non c'è un quartier generale o un direttore d'orchestra nascosto nel golfo mistico. È un processo impersonale, quasi una reazione a catena, è la tecnica che usa i tecnici. Videro giusto Heidegger e Schmitt.
Ma il problema sorge proprio qui. Se non riesci a individuare il Nemico ma ti trovi davanti a una filiera di agenti e funzionari e alla sommità non c'è nessuno, come puoi reagire e in che modo? De Benoist accenna a una risposta, un ritorno al localismo che mi pare troppo debole per fronteggiare un processo così maestoso. Poi lo stesso de Benoist intravede la possibilità che torni «l'autorità degli Stati» e dunque una dimensione statuale e nazionale come vero argine allo strapotere globale. Il progetto finale di questa «contestazione totale», come la definisce lui, qui non dichiarato per realismo, è l'Impero, ossia l'unità politica e spirituale di un'Europa civiltà e al suo interno una costellazione di diversità. Ma oggi suonerebbe come un'utopia. Perciò il discorso galleggia nell'indeterminato; anche la sovranità dei popoli, considerando quel che i popoli sono nella realtà, e quali aspettative hanno, induce allo scetticismo. Anche noi evochiamo spesso la sovranità politica e popolare come punto di partenza. Ma sapete cos'è, com'è e cosa vuole il popolo sovrano e chi è disposto a seguire?
Certo, primato della politica, ma avete ben presente chi sono, cosa fanno e quanto valgono gli attori politici, o ne intravedete di altri? Il rischio è che, alla fine, alla dittatura della tecno-finanza resti a opporsi solo la rozza demagogia dei populismi che sanno inveire e demolire, ma non saprebbero poi come costruire e selezionare. Hanno la rabbia, ma non la capacità di cambiare. Puri sfascismi velleitari che consentono lo sfogo, ma non la rinascita. Anche se non lo auspica, la traduzione politica del sovranismo di de Benoist sfocia al meglio nella Le Pen e al peggio in Grillo, più minori. Che si debba ripensare al ruolo delle élite e rilanciare la meritocrazia oltre il populismo? De Benoist pone giustamente la necessità simultanea di una rivoluzione e della conservazione. Ma, oltre l'ottima petizione di principio, come procedere praticamente? Se non si vuole sperare nella catastrofe come catarsi, si dovrà riprendere in rassegna un carnet di risposte modeste: scegliere il male minore, tentare di ibridarsi per coalizzarsi, oppure optare per la pura testimonianza, fare almeno comunità o ritirarsi a svolgere il proprio compito di formazione prepolitica e di circolazione delle idee, fare il proprio dovere senza aspettarsi nulla. E poi la sera, magari, dedicarsi al cielo, alle stelle, all'arte e alla preghiera, all'anima e al pensiero.
Speriamo che la divina follia dei vent'anni riesca a vedere e a suscitare quel che il disincanto plurideluso dell'anzianità non ti fa più vedere. Ma avete presente i giovani, i loro interessi, le loro aspettative? E qui riprende il tormentone...
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