A h, se avessero vinto le minoranze, avremmo avuto un'Italia migliore. C'è sempre un'Italia giusta, illuminata e minore da rimpiangere, sconfitta dall'Italia popolare, oscurantista e grezza. È questo il racconto dominante nella cultura del nostro Paese. I migliori persero, non furono capiti, furono sopraffatti dalle plebi e dai loro tribuni populisti. Il riferimento si snoda lungo i secoli e riguarda gli eretici, le sette, i giacobini, gli utopisti, gli azionisti e i liberalsocialisti, gli anticlericali e i radical. Un pamphlet di Massimiliano Panarari e Franco Motta, Elogio delle minoranze (Marsilio, pagg. 220, euro 12), dà voce a quest'antica lagnanza e riunisce le sparse membra delle minoranze virtuose in un solo percorso di elogio e rimpianto. Il sottotitolo eloquente è Le occasioni mancate dell'Italia.
In realtà conosciamo gli abusi di chi comanda, ma non sappiamo l'uso del potere che avrebbero fatto le minoranze sconfitte. A giudicare dagli esempi che abbiamo e dai pochi scampoli di storia, anche brevi, di quelle minoranze in azione o al comando, non c'è da stare così ammirati da loro e così tristi per la loro sconfitta. Sappiamo come si sono comportate le sette fanatiche che andarono al potere, sappiamo di quali intolleranze, violenze e cacce alle streghe si resero responsabili i riformatori religiosi, protestanti e calvinisti, saliti al potere. Spesso diventarono atroci repressori, non ebbero nulla da invidiare ai loro nemici istituzionali del passato e ai loro stessi persecutori. Sappiamo di minoranze rivoluzionarie andate al potere nel nome della libertà e del popolo sovrano che poi tiranneggiarono il medesimo e calpestarono la libertà più dei monarchi regnanti. Sappiamo cosa combinarono i giacobini in Francia e altrove, anche in Italia. Si pensi alla rivoluzione partenopea e alla «repubblica giacubbina» del 1799: oppositori sterminati, città che non erigevano l'albero della libertà messe a ferro e fuoco, trucidate decine di migliaia di persone, bambini inclusi, molto più dei loro nemici borbonici o delle malfamate bande sanfediste del cardinale Ruffo. Sappiamo poi come la pensavano radical e azionisti in Italia che volevano giustizia, libertà e socialismo liberale ma poi giustificavano dittature, non vedevano stragi e atrocità staliniane e sognavano per l'Italia una dittatura «illuminata» e giustizialista proprio mentre avversavano dittature reazionarie presenti, passate e possibili. Insomma spesso dobbiamo solo ringraziare che non siano andati al potere loro, gli intransigenti delle élite perdenti. Il fanatismo della purezza - la sindrome di Saint Just o degli Incorruttibili - a volte è molto più feroce e meno duttile delle tirannidi nel nome della maggioranza o del vasto consenso.
Ma il nostro, dicono gli autori, «è un elogio delle minoranze virtuose»: e chi lo stabilisce quali sono le minoranze virtuose? Come si distinguono le aristocrazie dalle oligarchie? Quali sono i criteri per selezionarle: magari gli stessi che adoperava Gramsci quando stabiliva sulla base della sua ideologia quali sono le violenze e le dittature reazionarie, da condannare e combattere, e quali sono invece le violenze e le dittature progressive, da elogiare e instaurare? Nell'autocertificazione di ciò che è virtuoso c'è il germe dell'intolleranza. In fondo si arriva alla democrazia per sfinimento, perché non si trova un criterio migliore e meno cruento del voto di maggioranza per legittimare al governo una minoranza anziché un'altra (perché di questo poi si tratta, di minoranze che governano nel nome dei pochi e minoranze che governano nel nome dei molti). Ci sono minoranze che devono la loro fortuna postuma e la loro aureola di rimpianto al fatto che non andarono al potere, non si sporcarono con la realtà e non provarono su strada i loro programmi velleitari che avrebbero deluso, oscillando tra la costrizione violenta per realizzare i loro ircocervi e il tradimento o la deviazione dal percorso originario.
Ma a proposito della cernita fatta dai due autori delle minoranze virtuose che ci siamo perduti, perché non c'è traccia delle élite conservatrici che non andarono al potere o furono inascoltate, delle aristocrazie tradizionali poste fuori gioco dai cinici parvenu del potere senza scrupoli e senza principi; perché non c'è traccia delle minoranze politicamente scorrette e delle culture non conformiste che pure attraversarono la storia civile e culturale, prima che politica, del nostro paese? Perché non c'è posto per le minoranze fiorite sulla rive droite, sull'altro versante? Perché il pregiudizio ideologico precede il riconoscimento delle virtù. C'è un filtro ossequioso all'ideologia dominante del nostro tempo che stabilisce a priori le minoranze da elogiare e quelle inaccettabili da scartare.
Diciamo che, in prevalenza, le minoranze sono migliori sul piano personale, morale e intellettuale, ma sono solitamente peggiori sul piano politico, sociale e pratico. Ma in linea generale non ha fondamento la legge del «pochi ma buoni». I pochi son pochi e basta, riproducono in scala ridotta le stesse mescolanze dei grandi gruppi. Diceva André Malraux: anche nelle minoranze intelligenti ci sono maggioranze di imbecilli. Se è impensabile che le élite siano maggioranza, non è vero l'inverso, che tutte le minoranze siano élite e comunque migliori per statuto e definizione delle maggioranze.
Detto questo, nessuno vuol negare un principio di realtà prima che di valore. Il mondo è mosso da minoranze attive e costituenti, come ci insegnarono Polibio e Machiavelli, Pareto e Mosca, Michels e Sorel. E come ci insegna la storia stessa. Dio sa quanto bisogno ci sia oggi di minoranze intraprendenti e fondatrici in un'epoca di disinganno, disorientamento e delusione come la nostra.
Comunque, esser pochi e perdenti non è sinonimo di migliori e virtuosi. La verità, come la qualità, non è garantita né dal numero né dall'esiguità.
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