Ma cos'è poi questa famigerata egemonia culturale? Quando è nata, come è cresciuta, come si manifesta oggi? Dopo la denuncia del filosofo cattolico Giovanni Reale sulla dittatura culturale marxista in Italia poi mutata in laicismo illuministico, e il «Cucù» che vi dedicai, ho ricevuto varie lettere che chiedono di precisare meglio il tema. In che consiste questa becera egemonia? Per cominciare, il modello ideologico dell'egemonia culturale viene tracciato da Gramsci con la sua idea del Partito come Intellettuale Collettivo che conquista la società tramite la conquista della cultura. Il modello pratico si nutre invece di due esperienze: quella sovietica, da Lenin a Trotzskj, da Zdanov a Lukács, vale a dire il ministro della cultura di Stalin e il filosofo ministro nell'Ungheria comunista. E quella fascista, con l'organizzazione della cultura e degli intellettuali di Gentile e di Bottai, che è l'unico precedente italiano, anzi occidentale di egemonia culturale (ma fu ricca di eresie, varietà e dissonanze).
La storia dell'egemonia culturale marxista e laicista in Italia va divisa in due fasi. La prima risale a Togliatti che nell'immediato dopoguerra nel nome del gramscismo va alla conquista della cultura, avvalendosi degli intellettuali organici militanti e di case editrici vicine: da Alicata a Einaudi, per intenderci, per non parlare della stampa. È un'egemonia non ancora pervasiva, punta alla cultura medio-alta e regge sulla riconversione di molti «redenti» dal fascismo. Contro questa egemonia si abbatterà la definizione, altrettanto nefasta, di «culturame» da parte del ministro democristiano Scelba. La seconda egemonia nasce sull'onda del Sessantotto e il Pci diventa poi il principale referente ma anche in parte il bersaglio dell'estremismo rosso. Il distacco dall'Unione Sovietica viene motivato, pure all'interno del Pci, col tentativo d'intercettare quell'area radicale, giovanile e marxista che non contestava l'Urss nel nome della libertà, ma nel nome della Cina di Mao, di Che Guevara, di Ho Chi Minh, e altri miti esotici e rivoluzionari. Perfino Berlinguer, quando accenna a dissentire dal Patto di Varsavia, parte da lì. Dopo il '68 vanno in cattedra nugoli di giovani fino a ieri contestatori, poi assistenti e presto neobaroni. La saldatura tra le due sinistre avviene con la nascita, da una costola de l'Espresso, de La Repubblica che raccoglie le sinistre sparse e concorre alla «secolarizzazione» del Pci nel progetto di un partito radicale di massa. Con La Repubblica e i suoi affluenti ha un ruolo decisivo nella nuova egemonia la sinistra televisiva, cresciuta in Raitre. Sul piano culturale Gramsci viene fuso con Gobetti e Bobbio diventa il nuovo papa laico dell'egemonia. Negli anni di piombo convivono l'egemonia gramsciana con l'egemonia radical che ne prende il posto, a cui contribuiscono i reduci del '68, dal manifesto a Lotta Continua. Se prima era il Partito a guidare le danze, ora è l'Intellettuale Collettivo a dare la linea alla sinistra e a guidarla sul piano dell'egemonia culturale. L'egemonia, sia gramsciana che radical, ha due caratteristiche da sottolineare. Non tocca, se non di riflesso, gli apici della cultura italiana, ma si salda nei ceti medi della cultura, nel personale docente, fino a conquistare buona parte dell'Università e della scuola, dei premi letterari, della stampa e dell'editoria, oltre che del cinema e del teatro, dell'arte e della musica. Nulla di paragonabile, per intenderci, con l'egemonia nel segno di Gentile e d'Annunzio, Pirandello e Marinetti, Marconi e Piacentini, per restare agli italiani. In secondo luogo tocca di striscio la cultura di massa, che è più plasmata dai nuovi mezzi di ricreazione popolare, a partire dalla Rai democristiana, Bernabei e l'intrattenimento nazionalpopolare, lo sport e la musica leggera, e poi la tv commerciale e berlusconiana. Dunque un'egemonia dell'organizzazione culturale, dei poteri culturali, dei quadri intermedi, senza vertici d'eccellenza e senza adesione popolare. Ma i riflessi della sua influenza s'infiltrano a macchia d'olio su temi civili e di costume fino a creare un nuovo canone di remore e tabù. L'egemonia culturale fagocita la cultura affine, asserve quella opportunista e terzista, demonizza o delegittima le culture avverse, di tipo cattolico, conservatore, tradizionale o nazionale. Innalza cordoni sanitari per isolare i non allineati, squalifica le culture di destra, bollate ieri come aristocratiche e antidemocratiche, oggi come populiste e razziste-sessiste; da alcuni anni preferisce fingere che non esistano, decretando la morte civile dei suoi autori. Qui converrà distinguere nel trattamento tra gli imperdonabili e i tollerati. Sono imperdonabili coloro che sono considerati legati a principi tradizionali e a una visione spirituale della vita, chi nutre un giudizio diverso sul fascismo, sul comunismo o sul berlusconismo, sulla religione e sulla famiglia, o chi non condivide il nuovo catechismo fondato sull'omolatria e sul permissivismo intollerante con chi non si allinea. Sono invece tollerati i neognostici che coltivano spiritualismi esoterici, fuori dal mondo e dal tempo, tipo Adelphi; si può arrivare a Guénon ma non a Evola, a Quinzio ma non a Sciacca, a Zolla ma non a Del Noce. Poi i dandy, che lasciano figurare i loro estremismi come stravaganze individuali o pose letterarie o puro vintage, che non contestano i valori dominanti e gli stili di vita; o infine, i fautori della destra impossibile che detestano ogni destra vivente e reale nel nome di quella che non c'è (genere montanelliani dell'ultim'ora). Sopravvive all'egemonia chi intrattiene buone relazioni coi suoi funzionari o si affilia ai clan ammessi o sottomessi. Particolare è il trattamento per i fuorusciti dalla Casa Madre dell'egemonia, gli ex-compagni migrati sulle sponde avverse: sono prima trattati con particolare disprezzo come traditori, cinici e venduti, ma alla fine sono accettati come interlocutori per via del pédigrée, di antichi rapporti e comuni circuiti di provenienza o pulsioni sinistre talvolta riaffioranti in loro. L'egemonia culturale fa male alla cultura, è inutile dirlo, ne danneggia non solo la libertà ma anche la qualità, la dignità e la varietà.
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