Oblomov? È vivo e ozia assieme a noi (attaccato al web)

Oblomov? È vivo e ozia assieme a noi (attaccato al web)

Ah, Oblomov signore dell'ozio e della stasi, maestro svogliato d'indolenza. A che vale spostarsi, sposarsi, spossarsi. Meglio ripararsi dal vivere, come ci si ripara dalla pioggia e dal sole; e schivare le sue chiamate, stendersi nel proprio trono, il letto, e regnare pigramente sui due mondi, la veglia e il sogno. Se Faust è lo spirito attivo dell'Occidente e della modernità, se per lui «In principio è l'azione», Oblomov incarna lo spirito passivo dell'Oriente e il principio d'inerzia. Due mesi fa cadde il bicentenario della nascita di Ivan A. Goncarov, ma agosto è il mese ideale per parlarne; l'ultimo che può lamentarsi del ritardo è proprio lui, l'autore di Oblomov, che impiegò più di dieci anni per scrivere il capolavoro ed eresse con pigra lentezza il proprio monumento alla pigrizia. La sua creatura gli somigliava fisicamente, aveva la sua stessa pinguedine, il volto apatico e gli stessi occhi sonnolenti. Ma Goncarov è assai meno conosciuto del suo personaggio, divenuto proverbiale. In Oblomov e nell'oblomovismo di solito si compendia il ritratto della Russia al tempo degli zar, lo spirito indolente e fatalista di una società rurale e feudale. Che verrà prima scossa dal nichilismo anarchico e poi spazzata via dal comunismo, con l'irruento risveglio alla modernità e alla rivoluzione (salvo poi riprodurre nello statalismo la passività indolente). Se il comunismo è socialismo più elettricità, come disse Lenin, la società che allevava gli Oblomov era invece servitù della gleba più candele, per l'illuminazione e la devozione. La cera squaglia e la processione non cammina, dice un proverbio russo e meridionale... Ma chi legge Oblomov solo nel suo tempo e nel suo luogo si ferma alla buccia e si perde la polpa.
Certo, la buccia dice che un signore nullafacente come Oblomov è possibile solo in una società di servi della gleba; solo lì può accadere che un uomo sin da bambino non si sia mai infilato le calze da solo; che altri abbiano fatto tutto per lui. È vero, ma Oblomov non appartiene solo alla sua terra e alla sua epoca. Già Kropotkin aveva intuito che Oblomov è un tipo universale. Voi dite inerzia russa, ma vi dice niente la flemma britannica e il moscio aplomb che culmina nella lenta cerimonia del thè? O la lunga e inoperosa siesta che divora i pomeriggi tra la Spagna e il Messico? Vi dice nulla la controra da noi a sud, la pennica romana, gli ozi di Capua ma anche i tanti elogi della lentezza, con relativa pratica, dalla Provenza alla Vienna indolente, cioè fino al cuore della Mitteleuropa? Sì, l'Oriente della contemplazione e la Grecia dell'aponia e dell'atarassia racchiudono come matrioske questa Russia asiatica e svogliata; ma Oblomov non somiglia solo all'Eugenio Onegin di Puškin, al Rudin di Turgenev o alle Anime morte di Gogol; somiglia anche a Marcel Proust, abitante assiduo del proprio letto, barricato nei suoi deliziosi arresti domiciliari, al Mondo di ieri di Stefan Zweig, perfino al britannico Oscar Wilde e a Lord Brummel. Non a caso, Goncarov definisce più volte Oblomov «sibarita», alludendo all'antica Sibari calabrese. In realtà, Oblomov è la traduzione russa di una visione universale fondata sul primato della stasi, sulla convinzione che vivere sia solo una perdita di tempo. Vivere è preservarsi, coricarsi e perpetuarsi; esporsi il meno possibile ai raggi della vita e dell'azione. Giorgio Manganelli trovava nell'oblomovismo perfino una matrice religiosa.
Ne ho conosciuti tanti nel nostro sud di Oblomov. Gente che ho sempre visto a mezzo busto perché seduta perennemente al caffè, in coma neurovegetativo e sguardo all'infinito; o signorine mai discese dai balconi e dalle finestre da cui spiavano la vita sentendosene immuni. Ci sono parole intraducibili per indicare l'oblomovismo nostrano: susta, sconfidenza. L'Oblomov tipico del mio paese si chiamava Ciccio, nullafacente storico e dormiente, voce catatonica e sguardo indolente, come l'omonimo Ciccio di Nonna Papera, l'Oblomov disneyano.
Pure in famiglia ho tracce di Oblomov. Mio nonno nacque lo stesso anno di Oblomov, nel 1859, di professione possidente, signorotto, il biglietto da visita lo qualificava Galantuomo e nel portone il leone rampante del casato era l'unico ruggito in tanta quiete. Mia Zia Carolina era Oblomov in versione magra e femminile. Un corredo intonso nella cassapanca, solo i fazzoletti di lino usati per il raffreddore, il suo terrazzo animato solo dai piccioni; mai sposata né fidanzata, mai svolto un lavoro o assunto un compito; dramma cosmico per lei era il contatore dell'acqua in eccedenza. Le ragazze per bene non vanno a scuola, stanno a casa. Alle cose pesanti ci pensano gli altri. Inerzia senza accidia, anzi scusarsi di esistere col prossimo, meglio passare inosservati, meglio non fare che fare. Vivere per sottrazione, trattenere il respiro per non farsi sorprendere in piena vita. «Non avrebbe potuto reggere né alle ansie della felicità né ai colpi della vita», dice Oblomov-zia Carolina. Godere oggi vuol dire patire domani, allora meglio di no; gioie e dolori dolgono entrambi. La vita come una lunga e gentile eutanasia. Ore intere a scrutare il Niende, Nirvana pugliese. Anche quando ebbe la televisione zia Carolina continuò a scrutare il nulla nello schermo, la vedeva accesa o spenta, con programmi o nell'intervallo. Oblomov un secolo dopo. Morì dove nacque. «Qui siamo nati, qui abbiamo vissuto e qui dobbiamo morire». E anche lei morì come Oblomov, «senza dolore, come si ferma un orologio che qualcuno ha dimenticato di caricare». C'è qualcosa di eroico nella viltà di non vivere. O nell'ottusità di credere che il meglio della vita sia restare al letto. A dormire, naturalmente.
Ma un dubbio s'insinua: che Oblomov e mia zia Carolina non appartengano solo al passato di una società arcaica e rurale. Una nuova specie di Oblomov cresce tra le pieghe del web. Oggi l'oblomovismo si chiama depressione, ore al computer scaricando film, sesso virtuale, musica e uscite dal mondo, voglia di sottrarsi alla competizione, agorafobia e fotofobia. L'Oblomov informatico non beve kvass e non vive in vestaglia persiana, ma fuma, beve e veste nel suo stesso spirito.

Vite di scarto, direbbe Bauman, darwinismo capovolto, la desistenza del meno adatto, il letto come rifugio all'incapacità di vivere. Marx si sbagliò: eliminando i servi della gleba, Oblomov non è morto ma vive e ozia accanto a noi. L'animo umano non dipende dai rapporti di produzione.

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