Giulio Andreotti è morto due volte: una biologicamente ieri, 6 maggio 2013; l'altra, moralmente e politicamente, vent'anni fa il 27 marzo 1993. Fu allora infatti che una azione violenta lo travolse mascherando da regolare indagine giudiziaria una contrapposizione etica e ideologica. Andreotti è il simbolo dell'Italia che non trova pace e verità neanche nel giorno della scomparsa di un uomo di 94 anni. Sono di ieri sera le accuse vergognose di quella parte di Paese che ha approfittato della sua morte per colpirlo ancora, per rilanciare pettegolezzi infamanti, frutto di una perversione fanatica paragonabile a quella che negli stessi giorni del 1993 sconvolgeva l'Algeria. Accosto due situazioni così lontane, di entrambe le quali fui testimone attivo, perché nel 1994, presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, vennero a trovarmi l'ambasciatore e alcuni esponenti politici «laici» dell'Algeria mostrandomi fotografie raccapriccianti di violenze e stragi con madri e bambini uccisi con efferata crudeltà, teste e arti mozzi, sventramenti: uno scenario di guerra. Non mi risultavano conflitti in Algeria e chiesi ragioni di tanta violenza. Mi fu spiegato che si trattava di un «regolamento dei conti» fra musulmani e musulmani, tra fanatici religiosi e osservanti moderati ancora legati alla tolleranza derivata dagli anni dell'occupazione francese.
La matrice della violenza era chiara. Dopo l'indipendenza il ripristino delle tradizioni aveva determinato una riabilitazione religiosa attraverso alcuni maestri inviati dall'Iran a insegnare le leggi del Corano nelle Madraze. I bambini educati in quelle scuole a una concezione religiosa integra e pura sarebbero diventati, una volta adulti, titolari di un rigore e delle conseguenti azioni punitive contro i non abbastanza osservanti. Perché faccio questo parallelo? Perché, gli anni della contestazione studentesca, a partire dal 1968, e ancor prima con la denuncia delle «trame» del Palazzo da parte di Pier Paolo Pasolini, avevano fatto crescere una generazione convinta di dover cambiare il mondo e di dover abbattere i santuari, fra i quali la Democrazia cristiana e i suoi inossidabili esponenti. Da questo clima derivò, ovviamente, l'assassinio di Aldo Moro (ma già allora l'obbiettivo doveva essere il meglio protetto Andreotti) attraverso un vero e proprio processo alla Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse. Forme estreme, violente, ma radicate nella convinzione che il potere politico fosse dietro qualunque misfatto: stragi di Stato, mafia, servizi segreti, P2. Con la P2, colossale invenzione di un magistrato, senza un solo condannato (sarebbe stato difficile, essendovi fra gli iscritti, il generale Dalla Chiesa, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, per le comiche finali), cominciò l'interventismo giudiziario, per riconoscere i metodi del quale dovrebbe essere letta nelle scuole la sentenza di Cassazione che proscioglie tutti gli imputati dall'accusa di associazione segreta e da ogni altra responsabilità penalmente rilevante.
L'inchiesta fu così rumorosa che ancora oggi «piduista» è ritenuta un'ingiuria. E, con tangentopoli e la fine di Craxi, arrivò anche il momento di Andreotti, che non poteva essere colpito per corruzione o per finanziamenti illeciti.
Così, con perfetto coordinamento, l'azione partì da Palermo. Andreotti, come avviene nelle rivoluzioni, fu accusato di tutto: di associazione mafiosa e di assassinio. Quelle accuse che ieri hanno imperversato per tutta la giornata: internet e soprattutto i social network hanno vomitato odio ripescando le storie di quegli anni senza possibilità di contraddittorio e dando per verità assodate le congetture dei magistrati. Giornali come il Fatto Quotidiano, rappresentanti dell'Italia giustiziera, hanno parlato del processo distorcendo la verità. Fa ridere che si parli tanto di pacificazione politica per gli ultimi vent'anni quando Andreotti è vittima persino da morto del contrario della pace, cioè dell'odio.
Quello di Palermo non era un processo letterario, non era un processo alla storia, ma un vero e proprio processo penale. Quello che non era cambiato era Caselli, il pubblico ministero, che, come tutti noi, da studente all'università, da militante di partito, aveva sempre visto Andreotti come Belzebù, come il «grande vecchio», e non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di poterlo processare veramente, da magistrato.
La mafia voleva far pagare ad Andreotti la indisponibilità di intercorsa trattativa dopo anni, per tutti i partiti, di implicazioni e di sostegni elettorali. Ma perché solo ad Andreotti e non ai tanti altri rappresentanti politici? Il processo allo Stato doveva essere esemplare, non diversamente da quello rivoluzionario che portò alla morte di Moro. Ma questa volta non erano le Brigate Rosse, era un vero e proprio tribunale della Repubblica con pubblici ministeri e giudici veri. E di cosa dibattevano come prova regina? Del bacio tra Andreotti e Riina a casa di uno dei Salvo. Intanto, tutto appariva a me irrituale e irregolare. Ogni giorno, con pochissimi altri (uno dei quali il coraggioso Lino Iannuzzi), notavo incongruenze e contraddizioni.
Perché Andreotti doveva essere processato a Palermo come capo corrente di un partito quando tutta l'attività politica si era svolta a Roma e il suo collegio elettorale era stato in Ciociaria? Dopo essere stato bruciato dal Parlamento come presidente della Repubblica, fu indagato dalla magistratura a Perugia per l'omicidio Pecorelli e a Palermo per associazione mafiosa. Per dieci anni si difese, essendo di fatto degradato da deputato a imputato, e perdendo ogni ruolo politico. In quegli anni fu abbandonato da tutti che erano certi, indipendentemente dalla colpa, della sua condanna. Ma la condanna è il processo stesso. Andreotti era diventato un appestato, non meritevole di alcuna continuità intellettuale o politica. Andreotti era il «Male». In certi momenti, quando smontavo nella mia trasmissione «Sgarbi quotidiani» alcune ridicole accuse care a Caselli, come quella di essersi recato in visita a un mafioso, a Terrasini, alla guida di una Panda (lui che probabilmente non aveva patente), mi sembrava che ogni limite fosse superato, e pure il senso del ridicolo. Ma mi sbagliavo: tutto era maledettamente vero.
Alla fine fu assolto. Ma la formula non poteva essere più ambigua per non penalizzare il suo accusatore. Così si inventò che i reati contestati a Andreotti fino al 1980 erano prescritti, e lui risultava assolto soltanto per quelli che gli erano stato attribuiti dall'80 al '92. Una assoluzione salomonica per non sconfessare il grande accusatore. Ma ingiusta e insensata. Perché ciò che è prescritto non può essere considerato reato, in assenza di quella verità giudiziaria che si definisce soltanto con il dibattimento che, a evidenza, a reati prescritti, non vi fu.
E intanto Andreotti assolto, con riserva, era già morto. E oggi nel coro di quelli che lo rimpiangono e lo onorano mancano le scuse e il pentimento di quelli che lo avevano accusato fantasiosamente e ingiustamente in nome della lotta politica. Quindi non della giustizia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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