Stefano Fassina è lo scapigliato del Pd. Non solo per la chioma scomposta e per il disordine e l'anticonformismo che ha più volte sfoggiato nelle sue esternazioni pubbliche, ma soprattutto per la naturalezza con la quale sciorina frasi capaci di scatenare baraonde all'interno del suo partito.
La dichiarazione sull'evasione di sopravvivenza è solo l'ultima di una serie di sortite esplosive. Chiamatele gaffe o rotture di tabù, ma la sostanza non cambia: Fassina da tempo è la pecora nera del Pd. Perché dice le cose che non si dovrebbero dire, perché sbaglia i tempi, perché non misura le parole e non calcola le potenziali reazioni. Ma lui, forse, è così: scapigliato. O, al contrario, crede di essere uno dei pochi conoscitori della realtà. Al netto dell'ontologia fassiniana, quel che è indubbio è che l'ex responsabile economico del Pd ha più volte minato il campo democratico.
Si è scontrato praticamente con tutti i dirigenti di peso. E cominciò a farlo fin da subito, poco dopo la nomina di membro della segreteria nazionale. Era febbraio 2010 e il primo bersaglio si chiamava Sergio Chiamparino, reo di aver sentenziato il fallimento del Pd e di aver proposto l'apertura del "cantiere Nuovo Ulivo che vada da Casini a Vendola”. Proposta bocciata prima da Bersani, subito dopo da Fassina, che ha inserito il sindaco di Torino nella generazione ''tupperware, che nell'incapacità di misurarsi sui contenuti, continua a introdurre sul mercato elettorale nuovi contenitori''.
Goffredo Bettini continuò la riflessione politica sul Riformista e l'aitante Fassina, sprezzante e incurante del ruolo e dell'esperienza dell'interlocutore, ribatté in questo modo: "Chiacchiericcio politicista, Bettini deve uscire dai palazzi e dai salotti del centro di Roma e fare un giro tra i lavoratori”. Putiferio. ''È davvero paradossale che Fassina, che nella vita ha fatto solo attività nei centri studi e che grazie all'attività meramente scientifica è stato cooptato nella segreteria nazionale del Pd, ora raccomandi a Bettini di fare un politica che esca da una dimensione elitaria”, gli rispose il deputato del Pd Massimo Pompili, membro della Direzione regionale del Lazio.
Erano le prime avvisaglie di un carattere turbolento e fuori dagli schemi. Poi fu la volta di Sergio Cofferati. Era il 5 gennaio 2011 quando l'allievo di Visco si scagliò contro l'ex sindacalista, colpevole di aver sostenuto la posizione della Fiom nella polemica con la segretaria della Cgil Susanna Camusso sulla vicenda Fiat: “Chi fa politica, soprattutto quando è stato leader sindacale, dovrebbe ricordarsi di rispettare l'autonomia delle parti sociali. Ciascuno deve fare il suo mestiere terreno della democrazia e delle condizioni del lavoro''.
E che dire di Pietro Ichino? “Una linea ha il 2%, l’altra il 98 per cento. Io capisco Ichino. Lui rappresenta quel 2% e per farlo valere, per difenderlo ha bisogno di andare sui giornali tutti i giorni", tuonò Fassina. Era il tempo delle critiche alla Bce, delle bocciature delle politiche di rigore e austerità, del pronunciamento della parola crescita, fino ad allora un tabù nella sinistra. Parole che scatenarono la bufera in seno al Pd. La componente liberal del Pd, guidata da Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci, Pietro Ichino e Luigi De Sena chiese nel novembre 2011 le sue dimissioni. Motivo? “Criticare aspramente la linea di rigore e sviluppo assunta prima dalla Banca d’Italia e poi dalla Bce, bollare come liberiste posizioni liberal come quella del senatore Ichino, prospettare soluzioni ispirate alle vecchie culture politiche del secolo passato, non è compatibile con il dovere di rappresentare il complesso delle posizioni assunte dal Pd". Per fortuna Bersani non diede ascolto alla mozione di sfiducia e Fassina si salvò. L'ex studente della Bocconi non ebbe problemi nemmeno a dare del berlusconiano a Walter Veltroni. "La posizione del Pd sul mercato del lavoro e sull’art.18 è diversa dalla tua, ovviamente legittima, ma minoritaria e più vicina alla linea del ‘pensiero unico’ e alle proposte del centrodestra (è una constatazione non un’ inaccettabile accusa di intelligenza con il nemico)", puntò il dito Fassina.
E ancora: le critiche al governo Monti, la rottamazione della sua agenda e la richiesta di voto anticipato che scatenò il panico nel Pd e l'ira di Enrico Letta, strenuo sostenitore del professore. Quest'ultimo poi cercò la vendetta - invano - invitando Bersani a silenziare Fassina.
Il braccio destro del segretario se l'è presa poi anche con Renzi, definito un ex portaborse, naturalmente con Berlusconi e col Pdl - celebre la frase rivolta ai giovani: “Meglio fumarsi una canna che votare Pdl”. Insomma, Fassina è un florilegio di zizzanie seminate. Incontrollate, come la sua capigliatura.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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