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Torture, sevizie e cadaveri nel fiume: l’orrore dei partigiani a guerra finita - VIDEO

Reportage da Codevigo, dove si registrò uno dei più terribili eccidi compiuti dai partigiani

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(Codevigo) La voce dell’uomo, ormai novantenne, si rompe mentre ricorda quei giorni di primavera del 1945: “Mia cugina è stata martoriata. Si chiamava Corinna Doardo ed era la maestra di Codevigo. I partigiani le hanno tagliato i capelli, l’hanno fatta sfilare per il paese con la gente che le urlava contro. Poi sono arrivati qui e l’hanno ammazzata”.

Cappellato” è il cognome dell’anziano. Si dimentica di svelare il suo nome, mentre la memoria corre al passato. “Cappellato”, la stessa parola che, pochi istanti prima, avevo letto su una lapide del cimitero di Codevigo, nella bassa padovana. Tra i 136 fascisti, o presunti tali, uccisi dai partigiani a guerra finita c’è infatti anche suo fratello Giovanni morto a 35 anni. “Pensava che non gli sarebbe successo nulla, che avrebbe ricevuto al massimo uno schiaffo. Invece lo hanno ammazzato per primo”. L’uomo si commuove ancora. Guarda di fronte a sé come se stesse cercando qualcosa o, meglio ancora, qualcuno. Chiede scusa, prima di riprendere il racconto ma poco dopo si ferma ancora: "Far tornare alla memoria queste cose non fa male, di più".

Ma cosa è successo a Codevigo? Tutto inizia il 30 aprile del 1945. L’Italia è liberata e Benito Mussolini morto. Il Ventennio è terminato. Sono giorni convulsi, dove giustizia e vendetta privata si incrociano pericolosamente contro ai danni vinti.

L’Ottava armata britannica, la 28esima Brigata Garibaldi e il Cremona oltrepassano il Po. Con loro ci sono anche diversi prigionieri di guerra che si erano arresi e ai quali era stato promesso un processo a Ravenna. Che, però, non avranno mai: verranno infatti uccisi a Codevigo. Racconta Mauro Fecchio, sindaco di Correzzola, uno dei comuni di provenienza di alcune vittime: “Sono stati ammazzati a guerra finita, non rispettando alcun tipo di codice militare. Le vittime erano soprattutto ravennati, prigionieri che si erano arresi nel Veronese per poi essere portati a Candiana. Il loro destino, però, si è intrecciato con l’avanzata delle truppe angloamericane e di alcune brigate partigiane al loro seguito”.

I fascisti, o i presunti tali, vengono portati nelle ville o in riva al fiume e lì giustiziati. Ad alcuni, come testimoniano i documenti della pretura di Piove di Sacco, vengono addirittura inchiodati i polsi a delle tavole di legno prima di essere ammazzati. Uno dei casi più drammatici è quello di Ludovico “Mario” Bubola, il figlio del Podestà di Codevigo. I partigiani lo prendono e lo portano in una cascina, dove gli tagliano la gola con del filo spinato. Il giovane sviene e gli gettano dell’acqua sul volto per svegliarlo. La tortura non è sufficiente. Gli tagliano la lingua e gliela mettono nel taschino della giacca e, infine, lo evirano e gli infilano i testicoli in bocca. Ludovico muore, trovando finalmente un po’ di pace. Verrà sepolto in un campo di erba medica.

Così, il parroco di allora, don Umberto Zavattiero, scrive nel suo Chronicon: “30 aprile. Previo giudizio sommario fu uccisa la maestra Corinna Doardo. Nella prima quindicina di maggio vi fu nelle ore notturne una strage di fascisti importati da fuori, particolarmente da Ravenna. Vi furono circa 130 morti. Venivano seppelliti dagli stessi partigiani di qua e di là per i campi, come le zucche.

Altri cadaveri provenienti da altri paesi furono visti passare per il fiume e andare al mare”.

Ancora oggi non si sa chi abbia ordinato il massacro. Né quante siano davvero le vittime. Solo la terra e i fiumi attorno a Codevigo lo sanno. Ma non lo diranno mai.

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