Magistratura

Caso Open, Renzi la spunta. "No alle mail intercettate"

La Consulta sconfessa i pm di Firenze: ci vuole l'autorizzazione per posta elettronica e WhatsApp

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Non siamo più nel Novecento, cara Procura di Firenze: e quando si parla di «corrispondenza» non si intende solo la busta di carta col francobollo, ma l'intero mondo delle comunicazioni, whatsapp in testa. Per questo, dice ieri la Corte Costituzionale, quando i pubblici ministeri fiorentini sequestrarono senza autorizzazione i messaggi di Matteo Renzi nell'indagine sulla fondazione Open non violarono solo i diritti di Renzi ma dell'intero Parlamento, così come scritti nella Costituzione. È l'accusa che da anni il leader di Italia Viva lancia contro la Procura, e che ieri viene fatta propria dalla Consulta, accogliendo il ricorso presentato dal Senato nel febbraio 2022. Per i pm fiorentini è una bocciatura senza possibilità di appello.

Per difendere il suo operato, la Procura si era arrampicata un po' ovunque, sostenendo da una parte di essere inciampata per puro caso nelle chat di Renzi sequestrando i telefoni di Matteo Carrai e Enzo Manes, entrambi vicinissimi all'ex capo del governo; e che comunque i messaggi telefonici e informatici non sarebbero compresi nella tutela concessa dalla Costituzione ai parlamentari, che richiede l'okay preventivo delle Camere, oltre che per le intercettazioni, solo per il «sequestro di corrispondenza».

Sul primo punto, ovvero la presunta casualità del sequestro delle chat, il Senato nel suo ricorso era stato pesante: colpire Carrai e Manes, rendeva «incontestabile che il bersaglio principale degli atti investigativi fosse proprio il senatore Renzi». La Consulta va più in là, dice che casuale o mirato non cambia niente, quelle chat non si potevano aprire, e detta regole rigide cui dovranno d'ora in avanti attenersi tutti i pm d'Italia: «Nel momento in cui riscontrano la presenza in esso di messaggi intercorsi con un parlamentare, debbono sospendere l'estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo (o dalla relativa copia) e chiedere l'autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare». Nulla di tutto questo accadde a Firenze, dove i pm fecero copia integrale delle chat di Renzi, depositandole e divulgandole anche dopo che il sequestro del telefono di Carrai - come ricorda ieri anche la Corte Costituzionale - era stato annullato dalla Cassazione.

Alla pretesa dei pm Luca Turco e Luca Tescaroli di escludere whatsapp dal concetto di corrispondenza, la Consulta - nella sentenza scritta da Franco Modugno, uno dei massimi giuristi italiani - dedica parole quasi sferzanti. «La garanzia si estende ad ogni strumento che l'evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi ignoti al momento del varo della Carta costituzionale. Sostenere il contrario, in un momento storico nel quale la corrispondenza cartacea, trasmessa tramite il servizio postale e telegrafico, è ormai relegata, nel complesso, a un ruolo di secondo piano, significherebbe deprimere radicalmente la valenza della prerogativa parlamentare in questione».

Su un solo punto la Corte respinge il ricorso del Senato: gli estratti conto bancari di Renzi sono stati acquisiti regolarmente. Dettagli. Per i metodi investigativi dei pm fiorentini, quelli che Renzi accusa di accanimento ideologico, che ha denunciato al Csm, che chiama «toghe rosse», e ai quali dice in faccia «io di voi non mi fido» (e loro rispondono «fa bene a non fidarsi») arriva una sconfessione piena.

E bisognerà vedere cosa accadrà il prossimo 22 settembre, quando a Firenze riprenderà l'udienza preliminare - che si trascina da oltre un anno - a carico di Renzi: che la Procura vuole portare a processo anche sulla base delle chat che non poteva sequestrare.

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