Il mondo ha un padrone ma non lo sa. Esistono gli stati uniti della terra, anche se non c'è un cartografo che si sia ancora avventurato a certificarne l'esistenza. Perché questo Stato immaginario non si può toccare, non ha confini né parlamenti e non conosce democrazia. Non ha neppure una bandiera, ma se dovesse averla probabilmente sarebbe un pollicione blu che si staglia su uno sfondo bianco. Un gigantesco «mi piace», un like. Bandiera e simbolo di uno Stato in cui il dissenso, il «non mi piace», è un'ipotesi non concepita dal programmatore. Parliamo di facebook e del suo fondatore Mark Zuckerberg che, nei giorni scorsi, ha preso carta e penna per scrivere una lettera al Wall Street Journal, in Italia pubblicata da La Repubblica. Sua altezza digitale ha voluto festeggiare con i suoi sudditi i quindici anni di regno assoluto della sua creatura, sfiorando appena argomenti spinosi come la privacy e il trattamento dei nostri dati. Perché è chiaro che facebook campa trafficando con tutte le informazioni che quotidianamente gli cediamo in cambio di quindici like di popolarità. Il problema è che, molto spesso, non ci rendiamo conto del maiuscolo monopolio che abbiamo permesso di creare a Zuckerberg: dall'informazione - gran parte delle notizie vengono lette attraverso facebook che, di fatto, è il più grande editore al mondo - alle nostre comunicazioni lavorative e personali. Controllando il «tempo di utilizzo» del mio iPhone mi sorge un dubbio. È Zuckerberg che mi mette a disposizione applicazioni che lavorano per me o sono io che lavoro - gratis - per lui? Su quattro ore di attività per più di due ore il mio smartphone è su una delle sue piattaforme. Praticamente sono un suo dipendente. Non sono il solo. Diamo qualche numero: gli utenti attivi su facebook sono più di 2 miliardi, su Instagram più di un miliardo e ogni giorno su WhatsApp vengono scambiati 60 miliardi di messaggi. Capite bene che, pallottoliere alla mano, Donald Trump rispetto al numero uno di Menlo Park è un amministratore di condominio e il presidente cinese Xi Jinping, al massimo, il sindaco di una metropoli. Ora che tutte le reti sociali di Zuckerberg si intrecceranno, prenderà vita la più grande banca dati della storia. Ovviamente tutto nelle mani di un'unica persona, legittimo proprietario della azienda da lui fondata. Un pericolo non solo per la privacy e per l'informazione, ma anche per la politica. Facciamo un esempio: come farebbero a comunicare con i loro elettori Di Maio e Salvini se l'algoritmo, che tutto regola e tutto decide, bloccasse o rendesse meno popolari i loro profili, magari perché hanno violato le regole del politicamente corretto? Sarebbe un problema, di democrazia.
Ma queste sono le regole di una azienda privata che oramai si occupa di affari pubblici come se fosse uno Stato. E forse è anche per questo che i governi sono sempre così riluttanti nell'imporre tassazioni efficaci ai colossi del web. Siamo nell'era della webcrazia. E non esistono urne. Solo «mi piace».
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