di Vittorio Sgarbi
Ho sempre ammirato Giorgio de Chirico, anche quando non era ammirevole, anche quando era irriso, dimenticato, compatito. Eravamo sul finire degli anni Settanta, e il pittore dava segni di sé come personaggio comico e paradossale. La sua stessa fisionomia era pittoresca e caricaturale. Nelle interviste televisive, dove concorreva con Ungaretti, per la ingombrante fisicità richiamava personalità come Ionesco o Hitchcock. Un vecchio nonno burbero, per le avanguardie che si misuravano con lui, come con Salvador Dalí. Penso a Andy Warhol, o a Gino De Dominicis che appare con il grande vecchio in primo piano in una fotografia di Claudio Abate del 1973. L'artista d'avanguardia sembra irridere il grande pittore imbronciato nella sua inconfondibile sagoma.
Così l'ho visto anch'io nel 1976, a Venezia, camminare solenne e silenzioso in piazza San Marco. De Chirico aveva concepito una così alta considerazione di sé da ritenersi l'ultimo pittore. Letteralmente. Alla fine di una lunga storia. In quegli anni poteva rispondere in questi termini a maliziosi interrogatori: «Chi sono, secondo lei maestro, i validi pittori viventi?». «Nessuno, all'infuori di me». «E, tra i morti, chi considera di più?». «Nessuno. Cioè posso accettare con riserva Tiziano e Raffaello, e senz'altro Courbet».
De Chirico non si misura con la storia, ma con l'eternità, e con il proprio mito, che egli dissacra. De Chirico resta unico, fuori del comune, capace di produrre divertimento, senza mai uscire dai confini della storia dell'arte.
Ugo Facco de Lagarda, davanti al singolare destino della vita misteriosa di de Chirico, il 22 settembre del 1964, nella rubrica «Aria di Venezia» («Il terribile de Chirico») su Il Mondo scrisse: «Evviva gli enfants terribles della cultura e dell'arte. Siamo stanchi di colli torti, di finti modesti, di umilissimi dal dente avvelenato, dei versipelle, e dei pedissequi attenti a ogni mutar del vento, all'effimera moda e agli intoccabili numi del giorno... In strenuo, eterno conflitto, con la Grande Esposizione dei Giardini (per cui, anche in questi giorni, de Chirico ha, senza affatto sorridere, proposto di abbatterla e sostituirla con un allegro Luna Park), alcuni anni or sono finì con l'allestire, valendosi di Giorgio Zamberlan, una memorabile Antibiennale»: contro qualunque conato di arte povera o concettuale, che in quegli anni mostravano i loro diversi e vacui volti.
Alla fine degli anni '60, dopo una lunga stagione neobarocca, de Chirico ha uno scatto di fantasia creativa superando la ripetizione dei soggetti maturati nel primo tempo metafisico, che era stato efficacemente illustrato, sulla rivista Lacerba, il 14 luglio 1914 da Ardengo Soffici, ai suoi esordi: «La pittura di de Chirico non è pittura, nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni. Per mezzo di fughe quasi infinite d'archi e di facciate, di grandi linee dirette; di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei, egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, d'immobilità, di stasi che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo nella nostra anima quasi addormentata...». Stati d'animo, trascrizioni di sogni. De Chirico si risveglia da un lungo letargo, e riprende a sognare. Sono, finalmente, altri sogni, non ripetizioni di sogni già sognati. E hanno una freschezza nuova. Non solo di invenzione, ma di condizione interiore, di giovinezza di spirito. Anche de Chirico ha il suo '68.
Intanto, mutati dal 1915, ritornano i manichini, che, al culmine della sua corsa, nel 1942, travolta la prima metafisica nel nuovo gusto barocco, aveva commemorato così: «Il manichino è un oggetto che possiede a un dipresso l'aspetto dell'uomo, ma senza il lato movimento e vita; il manichino è profondamente non vivo e questa sua mancanza di vita ci respinge e ce lo rende odioso. Il suo aspetto umano e nello stesso tempo mostruoso, ci fa paura e ci irrita. Quando un uomo sensibile guarda un manichino egli dovrebbe essere preso dal desiderio frenetico di compiere grandi azioni, di provare agli altri ed a se stesso di che cosa è capace e di dimostrare chiaramente ed una volta per sempre che il manichino è una calunnia dell'uomo e che noi, dopo tutto, non siamo una cosa tanto insignificante che un oggetto qualunque possa assomigliarci... Il manichino non è una finzione, è una realtà, anzi una realtà triste e mostruosa. Noi spariremo, ma il manichino resta. Il manichino non è un giocattolo, fragile ed effimero, che una mano di bambino può spezzare, non è destinato a divertire gli uomini, ma, costruendolo, gli uomini lo hanno destinato a determinate funzioni: per i pittori, i sarti, le vetrine dei negozi di abiti, gli ammaestratori di canipoliziotto, le scuole di borsaiuoli, ecc.
Non è la finzione della morte, della non esistenza che noi cerchiamo sulla scena. Se gli uomini chiedessero al teatro tale finzione il manichino sarebbe forse stato una consolazione, ma noi chiediamo invece al teatro la finzione della vita, gli chiediamo una vita irreale, senza principio né fine».
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