Se Trevi e Gubbio contano molto più di Londra e Parigi

I «provinciali» esaltano le mostre proposte all'estero. Per ignoranza e malafede

Se Trevi e Gubbio contano molto più di Londra e Parigi

Una facile impresa di demolizioni contrappone l'impegno e l'organizzazione dei Paesi e dei musei stranieri (soprattutto anglosassoni) all'inerzia e disorganizzazione dei nostri. Editorialisti di quotidiani (Il Foglio) e di settimanali (il Venerdì di Repubblica) insistono, con pervicace ignoranza, a deprimere la ricchissima offerta culturale di molte città italiane, per esaltare una mostra, certamente bellissima, ma assolutamente inutile, programmata alla National Gallery di Londra: «Mantegna and Bellini». Si tratta di un tema assai stimolante, ma già compiutamente esplorato, e che nulla aggiunge alla conoscenza dei due pittori, producendo soltanto il risultato edonistico di metterne a confronto alcuni capolavori. Le ingenue affermazioni della curatrice, Caroline Campbell («di Bellini mi infatuai da ragazza vedendo un manifesto per strada»), sono sufficienti a capire le ragioni profonde di questa mostra, dispendiosa e inutile. E anche se certamente impegnativa, e tale da accendere invidie negli studiosi, essa era realizzabile anche da noi e dai nostri musei.

L'obbiettivo di questa vasta campagna di disinformatia è, pretestuosamente, il vertice della politica culturale italiana, l'incolpevole e inconsapevole ministro Alberto Bonisoli, in tempi di autonomia dei musei e di proposta da molti anni prevalente delle istituzioni comunali, con i relativi assessorati. Vizi antichi e situazioni risapute, ma non evocate dai modesti - e, ahimè, disinformati - agitatori di polemiche. Sul Foglio si accusa il ministro di provincialismo, senza rendersi conto che nulla è più provinciale di una esterofilia di maniera: «Forse il ministro per i beni culturali del governo del cambiamento, anziché rilasciare interviste sgangherate in cui auspica direttori di museo che sappiano parlare bene l'italiano, dovrebbe chiedersi come mai una mostra così prestigiosa, con prestiti eccellenti provenienti anche dall'Italia, sia stata organizzata da una istituzione pubblica straniera».

Affermazione falsa e insensata perché, in questo momento, in Italia ci sono mostre anche più importanti e certamente più originali e più innovative, e utili agli studi, con opere di artisti che non temono il confronto con Mantegna e Bellini. Sono da poco terminate quelle impeccabili e complete su Ambrogio Lorenzetti a Siena e su Gaudenzio Ferrari a Vercelli, Novara, Varallo, che probabilmente i detrattori non hanno visto. E proprio in questi giorni, a Venezia, istituzioni pubbliche, statali e comunali, come le Gallerie dell'Accademia e Palazzo Ducale, hanno organizzato ben due mostre di Tintoretto di grande completezza. In ogni parte d'Italia grande è l'impegno oscuramente profuso dai funzionari delle soprintendenze e degli enti locali per realizzare mostre sofisticatissime e straordinarie, con opere rare e preziose. A Spoleto, Montefalco, Trevi, «Capolavori del Trecento», settanta dipinti a fondo oro su tavola, sculture lignee policrome e miniature, in relazione con Giotto: il maestro di Cesi, il maestro delle Palazze, il maestro di Sant'Alò, il maestro di San Felice a Giano, il maestro della Croce di Trevi e il maestro di Fossa. Vedere per credere.

E poi «Gubbio al tempo di Giotto», con opere del maestro di santa Chiara, di Palmerino di Guido, di Guiduccio Palmerucci, di Mello da Gubbio, di Pietro Lorenzetti. A Matelica, «Milleduecento. Civiltà figurativa tra Umbria e Marche al tramonto del Romanico» che apre con il Crocifisso di Arquata del Tronto, rarissima meraviglia. Quindi «Il Quattrocento a Fermo. Tradizione e avanguardie da Nicola di Ulisse a Carlo Crivelli». A Pesaro, «Gesamtkunstwerk: Pelagio Pelagi e Gioacchino Rossini», con mirabili disegni e dipinti. A Sutri, in palazzo Doebbing, «La bellezza di Dio», con sconosciute, inedite e rare tavole e tele dal XII al XVII secolo, fra le quali opere di Sano di Pietro, Antoniazzo Romano, Antonio del Massaro detto il Pastura, Cesare da Sesto, Giovanni Lanfranco, Bartolomeo Cavarozzi; e la meravigliosa croce di Vannuccio di Viva da Siena, del 1352.

Ne ha notizia chi critica l'Italia? Ne conosce il valore? Venga a vederle e a studiarle, prima di fare «l'esterofilo» contro «l'italiota», con categorie contrapposte ma altrettanto inadeguate. E chi ha deciso di infierire continua a straparlare. Naturalmente, non conoscendo bene la questione, proclama: «oggi al Musée Jacquemart-André de Paris... s'inaugura una mostra eccellente... Caravage à Rome, per la quale è arrivata in gran segreto dalla Svizzera l'ambitissima Maddalena in estasi, che secondo gli informati sarebbe segretamente proprietà di collezionisti milanesi. Forse un ministro della cultura dovrebbe chiedersi perché queste cose avvengano a Parigi e non nel territorio sotto la sua sovranità». Proprio una dimostrazione di disorientamento. La (piccola) mostra su Caravaggio è stata realizzata grazie all'amicizia di direttori di musei e collezionisti italiani, e io stesso ho dato suggerimenti a Beatrice Avanzi nella fase della preparazione. Ma, nell'accanimento visionario, si dimentica che, in perfetta simmetria, un dipinto attribuito a Caravaggio, Giuditta e Oloferne, trovato in Francia, a Tolosa, è stato esposto, per la prima volta, a Brera, qualche mese fa, fra molte polemiche sull'opportunità di esporre un'opera di collezione privata attribuita e non universalmente riconosciuta, nello stesso spirito di favorirne lo «studio» con cui oggi la Maddalena in estasi, di incerta proprietà e forse passata in Svizzera in modi non proprio trasparenti, è esposta a Parigi. Chi scrive sembra non sapere che l'opera correrebbe rischi a essere esposta in Italia. Una questione di vincoli, che potrebbero revocarne in dubbio l'esportazione, e limitarne il valore commerciale, se ristretto al solo mercato italiano. Questioni di legittimità giuridica, che hanno riguardato, in questi anni, anche una nota (e notificata) tavola riferita a Giotto.

La mostra di Caravaggio a Parigi, nello spazio ristretto del Musée Jacquemart-André, non può neppure aspirare a competere con le ultime esposizioni di Caravaggio alle Scuderie del Quirinale a Roma e a Palazzo Reale a Milano. Ma la polemica si allarga alla figura del ministro-manager, ex direttore accademico della NABA (Nuova accademia di belle arti), per una dichiarazione che ne evidenzierebbe il provincialismo: «C'è bisogno innanzitutto di persone che sappiano parlare bene l'italiano e capire il territorio. Non voglio logiche di campanile, ma nemmeno un direttore di museo di serie B solo perché viene da fuori». Un'affermazione corretta e rispettosa, da parte di un ministro che non disconosce il merito di molti funzionari italiani di carriera, mortificati da colleghi stranieri di non maggior valore e titoli, i quali hanno spesso più avuto di quanto non abbiano dato, nei musei che dirigono; e non si può dire che il pur bravo Eike Schmidt sia migliore di Antonio Natali, rimosso dopo aver realizzato meravigliose mostre agli Uffizi.

In proposito segnalo il vergognoso allestimento Ikea per alcune delle opere più notevoli (Leonardo, Michelangelo, Raffaello) degli Uffizi. Se qualcuno ha raddoppiato i visitatori, altri, come il disorientato direttore austriaco di Palazzo Ducale a Urbino, li ha dimezzati. Non basta essere nuovi, occorre essere bravi; e gli italiani non lo sono meno degli stranieri, se si valutano preparazione, studi e competenze.

Per quanto riguarda palazzo Citterio, estensione di Brera, fui io molti anni fa a bloccarne gli scriteriati e distruttivi lavori di «restauro», e chi ne parla oggi non ne conosce la storia e le disavventure. Insegue luoghi comuni, e non capisce che il maggior merito di questo ministro è non esserne schiavo.

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