Cultura e Spettacoli

"Con Tarantino e Pitt racconto al cinema il crollo del Sessantotto"

L'attore su «C'era una volta a... Hollywood»: «Dire che i film generano violenza è sciocco»

"Con Tarantino e Pitt racconto al cinema il crollo del Sessantotto"

da Los Angeles

È passatauna vita dai tempi di Titanic, dove un giovanissimo Leonardo DiCaprio si ergeva a nuovo idolo delle ragazzine. Da allora si è messo a lavorare su progetti seri e con grandissimi registi. Martin Scorsese, che ne ha riconosciuto il talento prima di tutti e lo ha usato per film memorabili come Gangs of New York e poi Steven Spielberg, Christopher Nolan, Ridley Scott, Clint Eastwood, Alejandro Inarritu con cui finalmente ha vinto l'Oscar grazie alla sua parte in The Revenant e tanti altri, fino ad arrivare a Quentin Tarantino. Dopo la prima collaborazione in Django Unchained, i due si sono piaciuti e la collaborazione è proseguita con C'era una volta a Hollywood, accanto a Brad Pitt, che si sviluppa in tre distinte giornate del 1969, l'8 e il 9 febbraio e il 9 agosto, giorno della strage dei membri del culto di Charles Manson in cui venne uccisa una giovane attrice incinta, Sharon Tate (Margot Robbie).

Il film è una lettera d'amore alla Hollywood di quegli anni. Brad Pitt e Leonardo DiCaprio interpretano Cliff e Rick, il primo uno stuntman, il secondo un attore di medio successo. Sono piuttosto in basso nella «catena alimentare», territori che Brad Pitt e Leo DiCaprio hanno bazzicato a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta.

DiCaprio, le manca qualcosa dei primi due livelli, anche se quello di mezzo probabilmente non lo ha mai vissuto?

«Mio papà mi ha sempre detto: qualsiasi cosa tu decida di fare nella vita, se riesci a essere il capo di te stesso e fare quello che ami fare, ti va meglio che al 99% della gente. Oggi sono a quel punto e quindi no, non tornerei indietro e non mi manca il prima».

Cosa direbbe alla sua versione giovane?

«Di godersi di più il processo. Di preoccuparsi meno. Di avere meno ansie. Di divertirsi di più e di prendersi meno seriamente. Fare l'attore sembra un gioco da ragazzi e in parte è un gioco, ma un gioco molto difficile, che può consumarti dentro».

Qual è stato il più grande sacrificio che le ha chiesto Hollywood?

«Se mi lamentassi con la fortuna che ho avuto sarei un pazzo. La prima volta che mi hanno scritturato è stato il momento più eccitante della mia vita. Certo, ci sono i momenti bassi, quando non ricevi troppe telefonate, quando la critica ti stronca. C'è molta gente che vorrebbe essere al nostro posto nella vita e nel nostro mestiere. E la gratitudine per la grande opportunità che ci è stata data supera abbondantemente qualsiasi fatica. Non tanta gente ha avuto la mia fortuna».

Cosa ricorda degli anni Sessanta?

«Ricordo la musica soprattutto. Ricordo meglio gli anni Settanta ma ho dei punti di riferimento nella mia memoria. Capisco quegli anni soprattutto attraverso mio padre. Lui è ancora oggi un hippy, non si è mai separato dai suoi lunghi capelli neri, ad esempio».

Questo film prende in considerazione una delle pagine più buie di Hollywood, la strage compiuta ad opera degli adepti di Charles Manson, in cui morì Sharon Tate.

«Fu un atto di violenza che rappresentò la fine del sogno del Sessantotto. Fu quasi un modo per liberarsene. Non l'avevo capito subito, ora lo comprendo di più. Ci sono state anche altre teorie. Qualcuno ha parlato di un complotto governativo per far fuori gli hippy e i loro ideali di pace. Mi sembra una tesi un po' azzardata«.

Non c'era fonte più autorevole di Tarantino per raccontare Hollywood.

«Vero. C'è una franchezza e un'autenticità che è particolare, perché è direttamente collegata alla sua passione».

Quale sarà lascito di Tarantino al cinema?

«L'originalità, lui è completamente diverso da chiunque altro faccia questo mestiere. Qualunque altro regista è stato influenzato da qualcuno, lui anche se dice di esserlo stato, è una creazione della sua stessa fantasia, è un personaggio unico e inimitabile».

I suoi critici dicono che ispira la violenza che poi sfocia ogni giorno nella società reale.

«Non mi piace prendere posizioni su questo, ma sostenere che un film sia il riflesso della società e delle singole azioni delle persone è semplicemente una stupidaggine. La storia dei film e dei giochi che generano violenza ha fatto il suo tempo. Forse bisognerebbe concentrarsi sui modelli reali e non quelli di fantasia...».

Lei ha appena donato 5 milioni di dollari per la foresta amazzonica.

Ecco, quello è uno dei pochi temi per cui non mi dispiace mettermi in gioco pubblicamente.

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